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di Marco Revelli

La Stampa, 18 agosto 2023

“C’è dunque un giudice a Berlino”, potremmo esclamare anche noi come il povero mugnaio Arnold della celebre pièce teatrale, il quale dopo una serie inenarrabile di vessazioni giudiziarie ottenne alla fine di essere reintegrato nei suoi diritti contro l’onnipotente re di Prussia.

Possiamo farlo perché alla fine, in forza della pronuncia del Bundesverfassungsgericht, la Corte costituzionale tedesca, Harald Espenhahn inizia a espiare la sua pena, come principale responsabile del rogo della Thissenkrupp di Torino in cui morirono in modo atroce sette operai.

Lo fa 16 anni dopo quel crimine consumatosi nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007.

Al termine di un’infinita catena di processi e di atti giudiziari in cui, con una raffica di ricorsi, ha costantemente tentato di negare ai parenti delle vittime fin anche il risarcimento morale dell’ammissione della propria colpa. E nel corso dei quali l’iniziale condanna a 16 anni di reclusione comminata dalla Corte d’Assise di Torino in primo grado per omicidio volontario con dolo eventuale prima si è ridimensionata di un terzo (derubricata a omicidio colposo: 9 anni e 8 mesi) poi ulteriormente dimezzata perché per la legge tedesca la pena per quel tipo di reato non può superare i 5 anni.

Harald Espenhahn al tempo dei fatti ricopriva la carica di Amministratore Delegato e membro del Comitato Esecutivo della ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni s.p.a. Era dunque il responsabile degli altri responsabili aziendali condannati per quelle sette morti (Moroni, Salerno, Cafueri, Pucci e Priegnitz, tutti condannati a pene tra i 7 anni e 6 mesi e i 6 anni e tre mesi), ma mentre i quattro italiani si erano presentati alle porte del carcere già nel 2016 quando la Cassazione ne aveva confermato le condanne, i due tedeschi, rifugiatisi in patria, avevano tentato di resistere forti della propria nazionalità evidentemente considerata “superiore”.

Poi però Priegnitz si era rassegnato dopo che il tribunale di Hamm aveva confermato la sentenza italiana e aveva incominciato a scontare i propri 5 anni in regime di offener Vollzug, ovvero di semi-libertà (di giorno poteva lavorare presso ThyssenKrupp, con cui aveva mantenuto un rapporto di lavoro, la sera rientrava in carcere finché non venne messo in libertà per “buona condotta”). Sarà presumibilmente questa la sorte anche per il suo “capo”, che inizia ora il suo regime carcerario di semilibertà, in attesa che tra un paio d’anni - forse un po’ meno dato il suo rango superiore -, sia restituito anche lui alla piena libertà.

Lascia l’amaro in bocca, l’intera vicenda. Ma non deve stupire. Quando si tratta di “crimini dei colletti bianchi”, come li definisce la sociologia del diritto, le cose vanno generalmente così. Il carcere è per gli altri, senza quarti di nobiltà. Quelli che per il furto di una bicicletta escono dalla cella solo con un cappio al collo. D’altra parte il mugnaio di Postdam della commedia aveva avuto il torto di prendersela con il sovrano che avrebbe preteso di abbatterne il mulino solo perché gli disturbava la vista del suo principesco castello di Sansoussi, e comunque dopo aver avuto temporanea giustizia per l’intervento di un giudice onesto, se lo era visto di nuovo sottrarre dal prepotente barone von Gersdorf. I poveri morti della Thyssen hanno avuto il torto di bruciare nel fuoco di uno dei più potenti gruppi siderurgici e finanziari europei, la cui sovranità persino una Corte costituzionale può solo graffiare, non certo superare.