di Paolo Di Paolo
La Repubblica, 26 maggio 2023
I video di Milano e Livorno con le botte di vigili urbani e carabinieri mettono a rischio la fiducia nelle forze dell’ordine e lasciano un sospetto. “Nessuno potrà più riaprirmi il cuore. Ecco che cosa fa la violenza. Ecco che cos’è”. Nella sua vastissima esplorazione della violenza nella società, lo scrittore americano William Vollmann indaga cause e contesti, cerca di cogliere ragioni e sfumature, entra nel campo dell’odio e della rabbia che lo alimenta, la furia cieca che trova talvolta il combustibile in un piacere perverso e osceno, i dilemmi morali, le giustificazioni dell’individuo e della collettività che spesso finiscono per coincidere (la difesa), ma insiste soprattutto sui segni che lascia. Sui corpi - lividi, ferite, mutilazioni, cicatrici - e su qualcosa di più impalpabile: una psiche, un’interiorità. Ha chiaro un fatto: la violenza “monta e sacrifica quel che trova”; riconosce che resta opaca la sequenza di variabili che determina il suo esplodere. Perché in quel momento? Perché in quella specifica circostanza? Perché mercoledì e non domani? È accaduto. Avrebbe potuto non accadere? E ancora: che cosa è “davvero” accaduto? Il corpo della vittima non dice tutto: mostra i segni. Chi studia la violenza - ammette lo stesso Vollmann - rischia di fermarsi su cause e mezzi e di perdere di vista la vittima, il soggetto-vittima.
Un giovane a Livorno pestato da due carabinieri. Poche ore dopo il caso di “Bruna”, la donna transgender presa a manganellate dalla polizia locale a Milano con una furia sproporzionata rispetto alla alterazione e alla (così nel linguaggio poliziesco-burocratico) “escandescenza” che lei stessa ammette. Quando dice che le fa male anche pensarci, dice una verità sottile e tragica che è fuori dalla portata di chi - come me, come la maggioranza fra noi - non è mai stato vittima di autentica violenza fisica. Non basta il più spericolato sforzo di immaginazione per approssimarsi alle sensazioni di un corpo che viene colpito con forza spropositata, un corpo inerme che alza le braccia e viene bastonato, preso a calci, a pugni. La sua dignità è calpestata, cancellata da una autorità che si manifesta truce, feroce, prepotente. Un’autorità che supera il limite sapendo di superarlo, e in qualche modo perverso forse godendone, incanalando nel gesto di sopraffazione una rabbia tossica e malata, che spesso viene da lontano.
Ma se il caso Cucchi e il caso Floyd - un caso italiano e uno americano, tra gli eventi più sconvolgenti in epoca recente di abuso di autorità - possono insegnarci qualcosa, ci insegnano che esiste e non può essere contrattata e discussa una linea, un confine oltre cui, in uno stato di diritto, si precipita nell’inaccettabile. Un inaccettabile che coniuga un piano morale e un piano istituzionale-politico. Come posso fidarmi dell’autorità se l’autorità lede i diritti umani? Se l’autorità che per statuto è tenuta a difenderli si trova a violarli in modo così spaventoso, così estremo? Sarebbe quasi repellente pensare che in un certo clima politico possa allignare una propensione all’abuso della forza, se non addirittura giustificarlo e dargli una patente di impunità. Non c’è se né ma che tenga, c’è un degrado - per quanto circoscritto - dell’istituzione che tutela l’ordine e la sicurezza pubblica a cui occorre dire no nel modo più netto. L’autorità che intimidisce, che umilia, l’autorità che infligge dolore dove non c’è incontrovertibile necessità. L’autorità che cancella la dignità dell’altro. L’autorità che tortura, che offende i corpi. “Il corpo prova dolore, / deve mangiare e respirare e dormire, / ha la pelle sottile, e subito sotto - sangue, / ha una buona scorta di denti e di unghie, / le ossa fragili, le giunture stirabili. / Nelle torture - scriveva la poetessa Wislawa Szymborska - di tutto ciò si tiene conto”.