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di Alberto Cisterna

L’Unità, 23 novembre 2023

È la frontiera più delicata da presidiare, perché è un confine impercettibile, sottile, silente, su cui vivono tante donne in bilico tra la vita e la morte. La morte di Giulia Cecchettin dovrebbe segnare, in una società che fosse meno esposta della nostra a mere sollecitazioni, il momento per una riflessione profonda sulla repressione penale e sulla sua capacità di deterrenza.

Non si tratta di contrastare la violenza di strada, i rave party, le scorrerie in armi nei luoghi dell’abbandono e del disagio, le borseggiatrici sui bus, le truffe agli anziani. È in discussione la capacità dello Stato di fermare Caino prima che uccida Abele, la forza della legge di impedire che il sangue innocente sia versato. Al momento è chiaro, dinanzi all’ennesima vittima, che né la punizione né il carcere impediscano la violenza; le conseguenze dei gesti violenti non rientrano in alcun modo nel calcolo omicida del carnefice che pur di cancellare la persona un tempo amata sopporta qualunque risposta, è incurante di qualunque processo.

L’assassinio delle donne è, sotto questo profilo, un gesto eversivo, terroristico che nega in radice la società e prescinde dall’esistenza stessa di un ordinamento giuridico, delle leggi, dei tribunali. È la violenza pura, anarcoide che esplode senza avvertire il peso del giudizio morale e della condanna civile dei consociati. È l’autocrazia feroce di chi giudica l’altra colpevole di una qualunque mancanza, anche la più insignificante, e da solo esegue la condanna in un circuito asfittico, privo di mediazioni, incapace di comunicazione.

Da questo punto di vista chi uccide una donna a sé vicina si colloca interamente al di fuori del consesso umano perché compie un gesto non solo sproporzionato o ingiustificato, ma del tutto incomprensibile. Certo i mafiosi uccidono per potere o per denaro, in una rissa qualcuno perde la vita, in una rapina si uccide per fuggire, ma alla fine una linea di razionalità, di prevedibilità, di corrispondenza si intravede sempre nella filigrana dei gesti anche nei più violenti ed esasperati. Ogniqualvolta si toglie la vita a una donna la mente non riesce a cogliere neppure i segni più sfocati di un ragionamento, le ombre più tenui di una motivazione.

Si aggirano solo fantasmi di spiegazioni, spettri di giustificazioni farfugliate, smozzicate nei verbali di interrogatorio o nelle aule dei processi. Una ferocia muta, ineluttabile, claustrofobica. Se lo Stato non riesce a imprimere forza deterrente alle proprie pene, se finanche l’ergastolo non argina e dissuade, se la cella non spaventa, allora si deve interamente ripensare il modo con cui la violenza sulle donne e il femminicidio sono stati sino a oggi contrastati dal legislatore.

Lo scopo della sanzione non è quello di rassicurare i cittadini che i malvagi saranno puniti, che la giustizia sarà inesorabile; non è una vendetta collettiva la pena, una ritorsione pubblica perché mai più accada. Probabilmente chi ha ucciso Giulia Cecchettin non avrebbe torto un capello a un’altra ragazza, né avrebbe ucciso ancora se le manette non gli fossero state serrate ai polsi. Risponderà del proprio delitto come merita e, forse, con la detenzione a vita in un carcere, in condizioni drammatiche per lunghi anni.

Ma quella legge implacabile, come non è servita a salvare Giulia, così non servirà neppure al suo carnefice che - nella cecità morale e sociale del proprio gesto - non avrà neppure modo di ravvedersi, di riflettere sull’enormità di ciò che ha fatto.

Il corpo delle donne è l’ultimo diaframma tra la barbarie nichilista e la civiltà della tolleranza, oltraggiarlo equivale a collocarsi in un territorio senza alcuna regola, buio, pieno di anfratti mefitici che nessuna legge è in grado di penetrare e illuminare. Non ci si può rassegnare all’ineluttabilità del male, soprattutto di questo male, ma non è neppure giusto rincorrere le paure agitando solo la forca della repressione. Una società solidale, premurosa, vigile non si limita a scrutare minacciosa le debolezze dei propri cittadini, ma tenta di coglierne il disagio, l’estraneità, l’avulsione e cerca di porvi rimedio per tempo, con mitezza, con pazienza.

Prima di impugnare pistole, bastoni, coltelli, acidi quegli uomini hanno innanzitutto progressivamente tagliato ogni relazione con il mondo per concentrare tutta la propria esistenza su una donna, su un corpo da possedere e da distruggere quando l’inevitabile fallimento delle relazioni smaschera devianze, turbe, paranoie. È la frontiera più delicata da presidiare, perché è un confine sottile, impercettibile, silente, su cui vivono tante donne in bilico, spesso senza accorgersene, tra la vita e la morte.