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di Maurizio Tortorella

Panorama, 27 ottobre 2022

Il nuovo Guardasigilli ha importanti riforme da fare e gravi problemi a cui mettere mano. Ma quelli che Panorama evidenzia in queste pagine non sono più rinviabili. Questa è una lettera aperta al nuovo ministro della Giustizia. Nessuno può invidiarlo. Si troverà a gestire il settore più avvelenato dell’amministrazione pubblica, quello che la politica da decenni ha trasformato nel campo di battaglia per i suoi peggiori conflitti, ma anche quello che paradossalmente è stato il più dimenticato dalla recente campagna elettorale.

Avrà certo mille gatte da pelare, il nuovo Guardasigilli, e non avrà respiro dal giorno del suo giuramento. Panorama si augura però abbia il tempo di dare un’occhiata ai quattro consigli (non richiesti) che seguono. Non si tratta delle clamorose riforme epocali, quelle di cui si discute da sempre - la separazione delle carriere, per esempio - ma che la corporazione dei magistrati come sempre farà di tutto per sabotare; né pensiamo a grandi rivoluzioni, che spesso cambiano tutto per non cambiare nulla. Quelle che seguono sono modifiche possibili e però importanti, che di certo darebbero il segno di un netto cambiamento di rotta. Ci provi, ministro: il cittadino apprezzerebbe.

1) Liberi il dicastero dai magistrati “fuori ruolo”. L’Italia è l’unico Paese del mondo occidentale dove esiste un’indebita commistione tra potere esecutivo e giudiziario, addirittura “fisica”. Come sempre, anche in questa legislatura il Csm ha concesso a 200 magistrati il permesso di uscire da un tribunale per assumere incarichi “fuori ruolo”. Il problema grave, che viola le auree regole stilate da Montesquieu nel 1748, è che 103 di loro lavorano al ministero della Giustizia, in massima parte all’ufficio legislativo. Che siano tecnici prestati alla politica è una vecchia storia e ormai non fa ridere più nessuno: la cronaca ha dimostrato che quei magistrati scrivono le leggi che li riguardano e gestiscono uffici politicamente delicatissimi, come il gabinetto stesso del ministro, cui suggeriscono nomine, decisioni, comportamenti. È facile capire che nessuna mossa dei medesimi colpirà mai gli interessi della corporazione da cui provengono. Per di più, dato che a decidere i loro nomi è sempre il Csm, la stragrande maggioranza di quei magistrati risponde agli interessi delle correnti che li hanno piazzati lì. Si trovano, insomma, a cavallo di un indebito conflitto d’interessi. Altre decine di colleghi fuori ruolo lavorano in altri ministeri, dai Lavori pubblici al Lavoro. Il risultato è che il ministero della Giustizia è controllato e condizionato da un esercito di magistrati che orienta le sue scelte e più in generale quelle dell’esecutivo, con un’evidente alterazione delle sane dinamiche tra poteri dello Stato. Il nuovo responsabile di via Arenula, quindi, dovrebbe ripristinare il principio della separazione tra poteri dello Stato e liberarsi dall’abbraccio dei “fuori ruolo”. Restituisca i suoi 103 magistrati ai tribunali (che ne hanno molto bisogno) e scelga i tecnici tra avvocati, commercialisti, docenti universitari.

2) Sia più duro con giudici e pm scorretti. Al ministro della Giustizia la legge dà il compito di promuovere l’azione disciplinare contro i magistrati che non svolgono i loro compiti o che si macchiano di comportamenti indebiti e illeciti, affidandone il compito ai suoi ispettori e al procuratore generale della Cassazione. Gli strumenti, insomma, ci sono. Certo, poi spetta al Consiglio superiore della magistratura decidere le sanzioni. E troppo spesso l’azione disciplinare finisce in nulla. Anche di recente è accaduto che un procuratore della Repubblica, accusato (da una collega!) di insistenti molestie sessuali sia stato trovato colpevole dei fatti dal Csm, ma “condannato” alla perdita di appena due mesi di anzianità sulla pensione. Ecco, per evitare queste soluzioni a tarallucci e vino, che screditano l’intero ordine giudiziario, servirebbe che il ministero fosse molto più duro nelle incolpazioni delle toghe. Molto più serio e assertivo. Che ci credesse davvero, insomma. Davanti a scorrettezze gravi non dovrebbe accontentarsi di un buffetto, ma dovrebbe insistere e pretendere giustizia vera. Lo faccia, ministro, vedrà che l’opinione pubblica sarà con lei.

3) Metta a frutto i 2-3 miliardi spesi per le prigioni. Il nuovo ministro dovrebbe mettere mano anche al nostro antiquato sistema carcerario: 189 istituti di pena dove la capienza “regolamentare” prevede un massimo di 50.942 detenuti ma oggi sono rinchiusi in quasi 56 mila. Nel 2022, lì dentro, si sono suicidati finora in 68. È un record folle. Fatte le proporzioni, è come se in Italia tra gennaio e ottobre si fossero uccise più o meno 72 mila persone, e non le 351 che effettivamente si sono tolte la vita. Le prigioni spesso sono vecchie e fatiscenti, e l’affollamento è un problema antico, punito più volte dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Eppure per quella che in gergo si chiama “l’esecuzione della pena”, cioè la gestione dei reclusi, il ministero spende ogni anno tra i 2 e i 3 miliardi di euro. Da troppo tempo si ha la netta impressione che la cifra sia, a dir poco, spesa male. Dove finiscono tutti quei soldi? Il ministro dovrebbe indagare. A fondo. Dovrebbe anche far sì che aumenti il numero dei detenuti che lavorano: oggi sono 2.473 in tutto, cioè quattro su cento. Ed è questa la principale causa di “recidiva”, che in Italia è al 32 per cento contro una media europea al 12-14: chi esce dal carcere, ma non ha in tasca un mestiere, torna a delinquere. Rientrare in una cella è anche uno dei motivi della disperazione che spinge al suicidio, così come l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva. I reclusi che a fine settembre scontavano una pena definitiva erano 39.419 su un totale di 55.835: il 70 per cento. Quindi poco meno di un terzo di quanti stanno in prigione è in attesa di giudizio. E 8.810 di loro, cioè quasi il 16 per cento, non hanno nemmeno una sentenza di primo grado. Nessun altro Paese europeo lo permette.

4) Risarcisca equamente l’ingiusta imputazione. In Italia una legge del 2020 (proposta da Gabriele Albertini e ottenuta da Enrico Costa: onore al merito) risarcisce le spese legali agli imputati che una sentenza definitiva abbia riconosciuto innocenti con formula piena. È una misura di civiltà, da decenni esistente in tutti i Paesi europei, che in Italia riguarda (dato ufficioso del ministero della Giustizia) almeno 120 mila persone ogni anno. Già affrontare un processo penale da innocenti è un disastro, ma se in più devi anche pagare la parcella all’avvocato l’ingiustizia è doppia. Nel 2020 il governo Conte bis ha però eccepito che sarebbe stato troppo costoso risarcire tutti gli assolti, quindi ha stanziato appena 8 milioni l’anno, per una ridicola media teorica di 66 euro a testa. Ecco, ministro, smettiamola di far ridere il mondo, e utilizzi bene almeno una parte dei 9 miliardi di euro del suo bilancio, destinandoli alla voce “ingiusta imputazione”. Sarà ricordato per sempre.