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di Marianna Filandri

La Stampa, 26 marzo 2024

La povertà nel nostro paese rimane ampiamente diffusa. Stando ai recenti dati Istat, nel 2023 in Italia quasi una persona su dieci è povera in termini assoluti. Cosa significa? Significa che una fetta rilevante di popolazione non raggiunge uno standard di vita minimo accettabile. Per intenderci sono famiglie che non hanno abbastanza risorse economiche per comprare da mangiare, avere un’abitazione, acquistare vestiti, prodotti per l’igiene personale, pagare un abbonamento telefonico. La povertà assoluta indica infatti una condizione di grave deprivazione che mette a rischio la salute sia fisica sia mentale.

A questi dati drammatici fanno da contraltare quelli dell’aumento dell’occupazione. Sono in molti ad esultare per il numero record di occupati che ha superato i 23, 7 milioni. Cifra che non era mai stata raggiunta da quando esistono le serie storiche Istat dal 1977. Come è possibile allora che all’aumentare dell’occupazione non corrisponda una diminuzione della povertà assoluta? Le ragioni sono molte, qui possiamo ricordarne tre. La prima è relativa al fatto che l’aumento dell’occupazione non ha comportato la scomparsa della disoccupazione o dell’inattività. Detto altrimenti, in 12 mesi dal 2022 al 2023 l’aumento dell’occupazione è stato in media di 450mila unità, tuttavia i disoccupati sono diminuiti, sempre in media, di solo circa 90 mila persone. Il numero di inattivi si è ridotto, ma è rimasto altissimo con 12, 3 milioni a fine 2023. La seconda ragione riguarda il fatto che non sempre il lavoro basta per uscire dalla povertà. Da un lato infatti ci sono i buoni lavori, ben pagati, a tempo pieno e stabili. Dall’altro lato ci sono molti cattivi lavori, a basso salario, per poche ore e a tempo determinato. In quest’ultima circostanza essere occupati non basta per uscire dalla povertà e possiamo pensare sia il caso del recente aumento dell’occupazione. Secondo Istat, infatti, la povertà da lavoro è aumentata nell’ultimo anno e ha riguardato tra i nuclei con una lavoratrice o un lavoratore dipendente oltre un milione e 100mila famiglie, 150mila in più del 2022. La terza ragione ha a che fare con l’inflazione. I costi che deve affrontare una famiglia per soddisfare i bisogni primari che definiscono la povertà assoluta sono accresciuti per effetto dell’aumento dei prezzi. Istat calcola infatti un aumento della spesa per le famiglie, spesa che però diminuisce in termini reali. Cosa significa?

Le persone povere spendono di più ma hanno meno. Inoltre, l’inflazione dei beni e dei servizi non ha riguardato i salari che sono calati in termini reali in misura marcata, soprattutto per chi già guadagnava poco. Di fronte a questo scenario ci sono allora almeno due linee di intervento da perseguire. La prima riguarda la regolazione del mercato del lavoro ed è relativa all’aumento dei salari - soprattutto più bassi - e a una limitazione del ricorso delle posizioni a termine. La seconda riguarda il contrasto diretto della povertà. È vero che non si può cancellare per decreto ma non serve alcuna innovazione tecnologica per sconfiggerla. I soldi sono facilissimi da trasferire: è sufficiente darli a chi non ne ha o ne ha pochi. Piuttosto serve la volontà politica. Le risorse pubbliche sono sempre limitate ma c’è una responsabilità nell’allocarle. Ridurre il sostegno ai nuclei in difficoltà indica che la povertà non è considerata un problema prioritario. Neppure lo è il garantire buone condizioni di lavoro. E l’assenza di questi due obiettivi è purtroppo resa evidente da questi dati.