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di Mario Deaglio

La Stampa, 26 settembre 2023

I migranti non solo sbarcano sulle nostre coste: da qualche giorno irrompono nella politica europea. Il primo ministro ungherese, Viktor Orban, condanna il patto su migrazione e asilo proposto dalla Commissione europea tre anni fa e accusa i migranti clandestini che vogliono entrare nel suo paese di essere armati e aggressivi. Il primo ministro italiano, Giorgia Meloni, critica, con toni più pacati, il suo collega tedesco Olaf Scholz per i rilevanti finanziamenti alle Ong tedesche che salvano i migranti in mare, ritenendo che questi salvataggi siano un incentivo a maggiori partenze irregolari; Papa Francesco invita ad aprire le porte, qualche politico italiano vorrebbe chiudere i porti.

In questa grande confusione, la risposta italiana si chiama Cpr, ovvero Centro di permanenza per il rimpatrio in cui accogliere (o meglio, tenere rinchiusi) i migranti senza permesso di soggiorno, in attesa che il loro caso venga esaminato e l’espulsione, se necessaria, venga effettuata. La sigla Cpr ha però un altro significato per chi non è più giovane: significa Camera di punizione di rigore, una pena che poteva essere comminata, per mancanze gravi, da un ufficiale a un militare alle sue dipendenze. La Cpr era una cella in cui il militare colpevole di gravi trasgressioni poteva essere rinchiuso - normalmente fino a dieci giorni - per mancanze gravi: senza cintura e con le scarpe senza stringhe, un’ora d’aria al mattino e una al pomeriggio, sotto la sorveglianza di un collega armato. Un vero e proprio carcere duro, insomma, forse anche per questo, abolito nel 1978.

I migranti, in quanto tali, non sono colpevoli di nulla, e non ha senso chiuderli in campi di detenzione addirittura per più di un anno; d’altra parte non si possono neppure lasciare liberi sulle nostre strade, facendo finta di niente. Per uscire da questa difficile situazione potremmo imparare qualcosa dall’esperienza tedesca del 2015-16: la cancelliera Angela Merkel decise di aprire le porte a tutti i profughi provenienti dalla Siria, dove infuriava una sanguinosa guerra civile. Tutti? Qualche lettore sarà incredulo, eppure è proprio così; nel giro di circa diciotto mesi ne arrivarono oltre un milione.

Naturalmente i punti d’arrivo erano dei centri d’accoglienza, con molti punti di apparente somiglianza con quelli italiani. Mentre, però, in Italia ci si preoccupa soprattutto di tenere dentro i profughi, nei centri tedeschi ci si preoccupava di mandarli fuori appena possibile. In Italia non si è ancora di fatto affrontato, in termini generali, il problema di che cosa debbono o possono fare i reclusi in questi centri durante il giorno, tra un pasto e il successivo. In Germania questo era uno dei punti centrali dell’azione di governo: innanzitutto, i profughi dovevano imparare le basi di una lingua non facile come il tedesco, e poi gli usi e costumi tedeschi, a cominciare dalle regole del traffico; molte volte si insegnavano loro i fondamenti di qualche mestiere per il quale c’era scarsità di manodopera e ci si preoccupava che il cibo fosse coerente con le loro abitudini alimentari.

I risultati sono largamente soddisfacenti: solo un profugo su quattro vive ancora nei campi, gli altri in normali case d’abitazione. La grande maggioranza delle famiglie può contare su almeno un lavoro regolare, i giovani frequentano le scuole tedesche: non sono “diventati tedeschi” ma sono dei buoni cittadini.

In Italia i Cpr sono concepiti come l’anticamera del respingimento, in Germania come l’anticamera di un’integrazione non completa ma civile. E forse, prima di dare il via al provvedimento Cpr, membri del governo e parlamentari dovrebbero trascorrere almeno mezza giornata in un Cpr, parlare e mangiare con chi vi è detenuto. Sarebbe forse l’unica via per un provvedimento davvero efficace.