di Luigi Manconi
La Repubblica, 24 maggio 2023
Sono passati oltre sessant’anni da quando il sociologo Erving Goffman pubblicò il libro “Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza”. E l’analisi condotta in quei quattro saggi che componevano il volume risulta tuttora assai valida. Goffman prende in esame i luoghi della società dove risiedono e convivono gruppi di persone per un significativo periodo di tempo. Gruppi costituiti da individui incapaci e non pericolosi o da individui che rappresentano un pericolo, sia pure non intenzionale, o da individui che rappresentano un pericolo intenzionale o da individui che svolgono un’attività funzionale continua o, infine, da individui che perseguono volontariamente il distacco dal mondo.
Come si vede, una pluralità estremamente differenziata di luoghi: dagli ospizi per vecchi agli ospedali psichiatrici e al carcere, fino ai conventi e ai monasteri. Questa amplissima varietà di sedi, dove risulta discriminante la volontà o meno di risiedervi, ha un fondamentale tratto comune: tutti gli istituti, le strutture, le istituzioni in questione sono “chiuse”, ovvero tendono a esaurire al proprio interno l’intero ciclo di vita di coloro che vi si ritrovano. Questo contribuisce a spiegare come mai il sistema penitenziario - l’istituzione totale per eccellenza - possa rimanere tuttora completamente impermeabile allo sguardo esterno, inaccessibile e non conoscibile.
Quanto è accaduto nelle scorse settimane nel carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, è esemplare. Due detenuti sono morti a seguito di uno sciopero della fame, in un caso durato 60 giorni e nell’altro 41. Uno dei due reclusi, con la sua azione, intendeva affermare la propria innocenza; l’altro, una persona di origine russa, chiedeva dal 2018 di essere trasferito nel proprio Paese per scontare lì la pena, come prevede la Convenzione di Strasburgo.
L’aspetto davvero scandaloso di questa vicenda è che, di essa, si sia avuto notizia solo dopo la morte del secondo detenuto. Dunque, per mesi, un fatto traumatico come lo sciopero della fame, con ciò che comporta di angoscia e sofferenza, è rimasto confinato all’interno delle mura del carcere, senza trovare modo di raggiungere l’opinione pubblica, di coinvolgere la classe politica, di suscitare un dibattito sul significato della pena e su come essa possa arrivare a negare in modo tanto crudele la finalità assegnatale dalla Carta Costituzionale.
Il carcere in quanto istituzione totale ha chiuso dentro di sé, in maniera ermetica, il dramma individuale di quei due detenuti, l’ha occultato, negato, rimosso. E ha occultato, negato, rimosso il suo esito tragico: la morte di chi quell’azione di protesta aveva intrapreso.
Sono passate due settimane da quando il Garante nazionale delle persone private della libertà ha reso noto quanto accaduto ad Augusta, senza che l’amministrazione penitenziaria emettesse un fiato. Ed è altamente probabile, quasi certo, che anche quanto qui vado scrivendo e quanto altri giornali riportano, sia destinato a non trovare alcuna risposta da parte delle autorità penitenziarie. A riprova del fatto che il carcere risulta tetragonicamente escluso dai principi primari e dalle regole fondamentali del sistema democratico. Oltre quei cancelli domina il silenzio del dispotismo.