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di Luigi Manconi

La Stampa, 29 agosto 2023

In genere, quando non si sa bene come iniziare un articolo sul carcere, si ricorre alla più consueta delle citazioni, attribuendola un po’ a casaccio a Victor Hugo o a Voltaire o a Cesare Beccaria: “La civiltà di una nazione è scritta sui muri delle sue prigioni”. L’abuso ha reso innocua tale affermazione, che pure conserva un suo robusto tratto di verità e, di più, la forza incontestabile di un dato scientifico. Oggi, quella massima, potrebbe essere aggiornata attraverso l’indicazione di un parametro di inciviltà giuridica e politica e morale dell’ordinamento in quello che è, in apparenza, solo un dettaglio. Ovvero, come il sistema penitenziario italiano tratta i bambini prigionieri. Ma, qualcuno potrebbe eccepire, mica ci sono bambini detenuti in Italia! E invece sì.

A fine luglio di quest’anno, nelle carceri italiane si trovavano 19 bambini dai 0 ai 3 anni, reclusi con le proprie madri. Si dirà: è un numero irrisorio. Vero, ma va ricordato che in altri periodi dell’ultimo decennio si è raggiunto il numero di 55 e che, soprattutto, quella cifra esprime simbolicamente il tasso raggiunto dalla ingiustizia assoluta.

E proprio perché quei bambini sono gli innocenti assoluti, privi di qualunque colpa e mondi da qualunque responsabilità. Colpevoli solo di essere le vittime della maledizione biblica sulle colpe dei padri. Viene in mente ciò pensando a quanto avvenuto ad Avellino qualche giorno fa, dove una detenuta di 39 anni, ristretta con la figlia di 4, ha tentato di togliersi la vita ingerendo della candeggina. In genere i reati per i quali le donne vengono recluse, anche quando, come in questo caso, in un Istituto a custodia attenuata (Icam), sono di lieve entità. Viene ignorato, così, quel fondamentale principio costituzionale, sempre ribadito dalla giurisprudenza italiana ed europea, del primario interesse del minore e si sottovaluta un dato grande come una casa. Ovvero, che è la stessa relazione di genitorialità che il carcere, per sua stessa natura, nega alla radice.

In altre parole, non può darsi rapporto madre-figlio all’interno di una prigione (per quanto attenuata). Ne è presumibile esito il fatto che la frequenza dei suicidi tra le recluse (che rappresentano appena il 5% dell’intera popolazione detenuta) è doppia della frequenza registrata tra i detenuti maschi. Per questa ragione, è stata una occasione drammaticamente persa e un atto politicamente ignobile quello che ha visto l’attuale maggioranza affossare la proposta di legge per far uscire i bambini dagli istituti di pena.

Lo scorso marzo, infatti, in Commissione Giustizia della Camera, il PD ha dovuto ritirare il progetto Serracchiani (che riprendeva la proposta dell’ex deputato Siani, frutto di un lavoro con le associazioni del settore): dal momento che Fratelli d’Italia aveva inserito degli emendamenti destinati a peggiorare il testo. Volti cioè a depotenziare l’intero impianto normativo e la sua capacità di “liberare i bambini”. In sostanza, secondo Fratelli d’Italia, in caso di recidiva e senza valutazione da parte del magistrato, sarebbe stata resa automatica la custodia in carcere o negli Icam. Annullando, così, la possibilità di scontare la pena nelle case famiglia previste da una legge del 2011, oggi pressoché inapplicata. Quasi non bastasse, il partito di maggioranza aveva anche prospettato l’ipotesi di allontanamento del figlio dalla madre.

Come si vede, una questione apparentemente di dettaglio evoca grandi tematiche giuridiche e morali ed è materia di un conflitto acuto tra una concezione di destra e una di sinistra: quelle stesse categorie che solo gli sciocchi possono considerare obsolete a causa di una fine della storia che lo scenario internazionale si incarica di smentire a ogni piè sospinto.