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di Paola Mastrocola

La Stampa, 6 giugno 2023

Non tolleriamo più nulla che restringa l’ampiezza della nostra libertà. E i luoghi d’istruzione diventano una vessazione insopportabile. Insegnanti insultati, malmenati, accoltellati, colpiti da pistole ad aria compressa. Devo dire che non mi stupisce, e vorrei spiegare perché. Giorni fa mi è capitato di avere in casa per una mezz’oretta un bambino, sui dieci anni.

Mai visto prima, figlio di amici di amici. Appena entrato, il bambinetto sconosciuto si mette a correre per tutte le stanze, apre cassetti, tocca ovunque e giochicchia con ogni oggetto. Gli dico di non toccare, glielo ripeto anche imperiosamente, più volte. Niente. Quando afferra un affilato tagliacarte e lo agita per aria a mo’ di sciabola gli intimo di smettere, ma siccome non smette glielo tolgo di mano e lo poso in alto su un ripiano. Lui si arrampica, lo riprende e ricomincia a vorticarlo pericolosamente intorno agli occhi, suoi e miei.

Non succede nulla di grave, per fortuna, e la mezz’oretta passa. Il padre, che finora non ha visto niente perché stava lontano - persona distinta, gentile, bene educata e, non so se sia rilevante ma lo dico: di classe alta - si riprende il pargolo, il quale prima di uscire afferra ancora al volo due o tre soprammobili. Ora il padre vede, e interviene: dice al figlio di non toccare niente senza permesso. Parole che si perdono nel nulla.

Non credo che quel padre non abbia educato il figlio. Lo ha fatto di sicuro. Ma è proprio su quel nulla dove si sono perse le sue parole che dobbiamo interrogarci, su quei divieti alati che svolazzano inutili nell’aria delle attuali famiglie. I bambini si abituano subito a queste stravaganti parole che non approdano a nessun significato: non fare questo, non dire così, chiedi scusa, vieni subito qui, saluta il nonno… Manca sempre un pezzo, la capacità di far valere quel che si è appena detto. Ma sull’educazione dei figli sarebbe un discorso lungo, mi fermerei qui, alle parole al vento.

Altri due racconti. Autostrada Torino-Milano. Ho fretta e vado fissa sui 130, non oltrepassando il limite ben noto a tutti. Nella corsia di sorpasso sfrecciano centinaia di auto che, visto che mi superano, immagino debbano andare tra i 140 e i 160 almeno, e che mi tallonano a un metro facendosene baffi della distanza di sicurezza prevista dalle norme di guida.

Infine a Roma, ultimi fatti di cronaca. Turista fa il bagno nella fontana di Trevi e, invitata dal poliziotto di turno ad andarsene, esce e lo schiaffeggia. All’aeroporto di Fiumicino, nella fontana all’ingresso, turista in mutande si fa lo shampoo. Fine del breve repertorio.

Non amiamo le leggi, le regole, i divieti, ogni forma d’imposizione e ogni sorta di limitazione. Non tolleriamo più nulla che restringa l’ampiezza smisurata della nostra libertà e dei nostri capricci, qualsiasi uzzolo frivolo e passeggero ci sfiori la mente. Lo vediamo in ogni ambito, in ogni dove. Mi sorge una domanda (automatica, visto il mestiere che ho fatto per trent’anni): come si può far scuola a ragazzini che aprono cassetti in case di sconosciuti? Come si può “tenerli”, in classe, fermi, attenti, convincendoli pure a studiare?

Che scuola si può mai inventare, se noi stessi superiamo i limiti di velocità, schiaffeggiamo poliziotti, ci buttiamo in fontane cittadine e ci insultiamo normalmente con violenza sui social? La scuola è per definizione un luogo che limita, dà imposizioni e mette divieti: è un edificio chiuso, ti chiede di studiare e ti dà 4 se non studi, ti vieta di uscire, ballare in classe, farti una pastasciutta sul banco, videotelefonare nell’ora di lezione.

Se siamo una società abituata a non soffrire più nessuna forma di autorità limitante, ovvio che non possiamo sopportare che qualcuno, un insegnante nella fattispecie, ci interroghi, ci dia voti, ci imponga lezioni, che ci insegni quel rispetto delle regole e degli altri che non vediamo più da nessuna parte. La scuola diventa una vessazione insopportabile, un ostacolo da rimuovere, una persona da accoltellare. Agiamo d’istinto, nell’unica forma possibile in un mondo dove abbiamo azzerato la cultura e che, di conseguenza, torna a essere il mondo dei primordi: la violenza.

Se la scuola resta l’ultimo luogo dove si esercita una forma, anche se pallida, di autorità, ecco che diventa inaccettabile. E la vita quotidiana dei ragazzi si presenta insopportabilmente spezzata in due: al mattino nel luogo di tortura della scuola, e il resto del tempo nell’olimpo dei bagordi dove tutto è lecito, famiglia compresa.

Non è disagio giovanile. È cultura dell’illimite. Insopportazione continua di ogni cosa che limiti o dispiaccia, restringendo il campo dell’azione e del piacere. E come stiamo rispondendo a questo? Col motto: cambiamo la scuola! Siccome i giovani non la reggono più, siccome non rispecchia più quel che siamo diventati tutti, invece di proteggerla e potenziarla come unico e ultimo baluardo contro la barbarie, ecco che la smantelliamo definitivamente, eliminando ogni cosa che disturbi, vieti, imponga, infastidisca, turbi, demoralizzi, intristisca o frustri: via le lezioni, via i libri, via i voti, e a breve via gli insegnanti. Temo che facciamo bene, visto che siamo incapaci di prendere altre vie. Non si può che seguire il percorso intrapreso, in quella logica dell’ineluttabile che intristisce quanti di noi non credono ciecamente nel progresso e vorrebbero che qualcosa si salvasse, che qualcosa rimanesse fermo e incrollabile a fare da scoglio e arginare i flutti tempestosi.

Continuiamo pure, dunque, a smantellare la scuola in modo che sia più conforme all’attuale società, a dispetto degli orrori che vediamo e vogliamo continuare a denunciare. Chiederei solo un favore: non chiamiamola più scuola: per rispetto verso quel che la scuola è stata finora. Troviamo un altro nome, a questa “cosa” nuova, informe e deforme. Abbiamo dimostrato ultimamente una fantasia neo-nominalistica eccezionale, non ci sarà difficile. Le parole sono importanti, come diciamo sempre: chiamare una cosa nuova con un nome vecchio mi sembra induca solo confusione e smarrimento. Molto smarrimento.