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di Giovanni Orsina

La Stampa, 18 agosto 2022

In questa estate elettorale come vent’anni fa contro Berlusconi, si fa ricorso alla stessa strategia. Chiamare alla difesa della democrazia è un’arma di ultima istanza che rischia di essere banalizzata.

Son parecchi anni, ormai, che l’antifascismo non se la passa troppo bene. A giudicare da com’è cominciata, non è impossibile che questa campagna elettorale finisca per ucciderlo definitivamente. Con un’aggravante: che a vibrargli il colpo di grazia saranno stati proprio gli antifascisti. Come quella della patria per Salvatore Satta, la morte dell’antifascismo potrebbe rivelarsi “l’avvenimento più grandioso”, se non delle nostre vite, quanto meno di questa stagione della nostra storia.

La Repubblica italiana sorge sulle macerie del fascismo dandosi valori diametralmente opposti a quelli del regime e proponendosi di scongiurarne per sempre il ripresentarsi. È indiscutibile, perciò, che il nostro ordine costituzionale sia antifascista e che il fascismo non possa trovare cittadinanza al suo interno. Una volta detto questo, tuttavia, non è che abbiamo risolto poi molto. Le etichette politiche sono elastiche, infatti, e l’attribuirle è esso stesso un esercizio politico. Che cosa dobbiamo intendere per fascismo, allora? Quand’è che siamo in presenza di un pericolo fascista e dobbiamo perciò mobilitarci a difesa della democrazia antifascista? E soprattutto: a chi spetta il diritto di rispondere a queste due domande?

Storicamente, la cultura e le forze politiche di orientamento progressista hanno arrogato a se stesse quel diritto, nel nome della propria purezza antifascista e appoggiandosi al proprio predominio nel mondo intellettuale. E hanno dato alle prime due domande delle risposte “larghe”, dilatando la nozione di fascismo ben al di là dei confini storici del fenomeno e, di conseguenza, moltiplicando i pericoli fascisti e le chiamate alla difesa della democrazia. Fin quando è durata la Guerra Fredda, quest’antifascismo “largo” è servito soprattutto al Partito comunista per contrastare la retorica anticomunista che lo delegittimava e, a sua volta, delegittimare le forze politiche che adopravano quella retorica.

Una volta caduto il Muro di Berlino, l’antifascismo - fattosi nel frattempo ancora più largo - è in buona misura confluito nell’antiberlusconismo. Più in quanto potenziale autocrate mediatico da terzo millennio che a motivo dei suoi alleati post-missini, Berlusconi è diventato la nuova incarnazione del pericolo fascista. Per le elezioni del 2001, così, Umberto Eco promosse un noto appello che definiva il voto nientemeno che un “Referendum Morale”, con tanto di maiuscole, “contro l’instaurazione di un regime di fatto”. Qualche tempo dopo, ironicamente ma non troppo, lo storico Paul Ginsborg si chiedeva se fosse “del tutto fantasioso immaginare che nel 2013 i “piccoli forzisti” vadano a letto stringendo nella manina il medaglione di Silvio B., come facevano i piccoli Balilla con quello del duce nel 1935”. L’obiettivo politico in questo caso era duplice: da un lato indebolire Berlusconi, delegittimandolo in Italia e all’estero (Berlusconi, dal canto suo, contraccambiava generosamente con l’anticomunismo), dall’altro restituire un po’ di tono e compattezza a una sinistra esangue e divisa.

Dilatare l’antifascismo per ragioni politiche è un’operazione comprensibile e legittima. Gli effetti collaterali negativi, tuttavia, sono legione. Suonare a martello l’allarme antifascista e chiamare alla difesa della democrazia è un’arma da fine del mondo, una risorsa di ultimissima istanza. Se la si usa in continuazione la si banalizza e rende inefficace, un po’ come il pastorello che gridava al lupo per scherzo ed ebbe infine le pecore divorate quando il lupo arrivò davvero, e nessuno rispose ai suoi richiami. Tanto più se, come nella favola di Esopo, i primi allarmi si sono dimostrati infondati: dal “Referendum Morale” del 2001, che Berlusconi stravinse, sono passati ventun anni, e pure se ne abbiamo viste davvero di tutti i colori, abbiamo tuttavia continuato a votare in elezioni libere e il paventato “regime di fatto” proprio non s’è visto. Semmai, il governo Berlusconi del 2008-2011 resta l’ultimo che gli italiani si siano potuti scegliere nelle urne: piuttosto bizzarro come segno di fascismo.

Se poi, come accadde appunto nel 2001, la parte politica accusata di fascismo o parafascismo vince pure, l’antifascismo (o meglio: quel tipo “largo” di antifascismo) ne riceve un danno ulteriore. Di fatto, la maggioranza degli elettori dimostra di non riconoscervisi, di non considerarlo il fondamento comune della convivenza repubblicana, ma il frutto indigesto di una drammatizzazione a uso politico, di una strumentalizzazione a fini elettorali. Torniamo così alla terza delle domande che facevo in apertura: a chi spetta il diritto di decidere se ci si trova in presenza di un pericolo fascista? In una democrazia, è difficile che la risposta a questa domanda non passi almeno in parte - e una parte rilevante, direi - per gli elettori. Per mancanza di concorrenti più qualificati, se non altro. Ma tanto più se la stragrande maggioranza di quegli elettori non ha dato segni rilevanti - negli studi demoscopici, nelle piazze, nel tasso pressoché nullo di violenza politica - di aver rifiutato i valori democratici e di vagheggiare derive autoritarie.

Veniamo così a quest’estate del 2022. Quel che non cesserà mai di sbalordirmi del progressismo italiano, politico e culturale, è la coazione ossessiva a ripetere, l’incapacità d’imparare dai propri errori. Ci risiamo, quindi: l’uso politico dell’antifascismo, l’allarme democratico, la fine del mondo, gli strumenti di ultimissima istanza. Tutto questo di fronte a un Paese disincantato, stanco e distratto che pare crederci ancora meno che nel 2001, alla fine del mondo. Anzi, che non pare crederci affatto, se non altro perché, in una forma magari istintiva e confusa, conserva memoria degli allarmi rivelatisi infondati vent’anni fa. E se alla fine la coalizione di destra vincerà le elezioni, com’è probabile, l’antifascismo “largo” si sarà dimostrato ancora una volta lo strumento politico di una parte minoritaria che non sa più parlare altrimenti agli elettori. E quando, fra cinque anni al massimo, torneremo a votare in un sistema politico probabilmente altrettanto scombinato ma non meno democratico e liberale dell’attuale - esito sul quale, come la stragrande maggioranza degli italiani, non nutro il benché minimo dubbio - il Paese ricorderà che per l’ennesima volta il pastorello ha gridato al lupo, ma il lupo non c’era.

E dovremo allora pregare che il lupo non abbia ad arrivare davvero, prima o poi. Perché a quel punto, se arrivasse, sbranerebbe indisturbato fino all’ultima pecora.