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di Francesco d’Errico*

La Nazione, 5 marzo 2022

Il fenomeno dei suicidi in carcere non è mai stato al centro delle attenzioni dell’opinione pubblica e della politica. D’altronde, nessuno dei mali che affligge il nostro sistema penitenziario pare interessare particolarmente a media e partiti.

Ecco perché, a maggior ragione, considerando la concomitanza di eventi (giustamente) catalizzanti come l’elezione del Presidente della Repubblica, le attese decisioni della Consulta sui referendum e poi l’invasione dell’Ucraina da parte del regime putiniano, il fatto che dall’inizio del 2022 ben dodici persone si siano tolte la vita nelle carceri ha destato (purtroppo) poco interesse.

L’allarme era stato lanciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, il 24 gennaio, quasi un mese e mezzo fa, quando già otto persone recluse avevano scelto di farla finita. Nella nota diramata per segnalare l’inquietante crescita dei suicidi, Palma aveva ricordato giustamente che “solo un dialogo largo può indicare la via da percorrere per ridurre le tensioni, ridefinire un modello detentivo e inviare un segnale di svolta”.

Proprio questo monito del Garante contiene un aspetto fondamentale: se ogni individuo ha un vissuto unico e un personalissimo fardello da sopportare, e se dunque ogni suicidio, purtroppo, ha una sua storia e una propria specificità, è impossibile non prendere atto che nelle nostre carceri dal 2000 ad oggi si sono tolte la vita 1234 persone (nove volte il numero di quelle che si sono suicidate in Italia tra i liberi, fuori dal carcere).

Un dato che, per la propria consistenza, evidenzia la presenza di una patologia di tipo strutturale, che va oltre le singole vicende di ogni detenuto, suggerendo in modo inequivocabile una correlazione tra le disumane condizioni di detenzione e la scelta di centinaia e centinaia di detenuti di darsi la morte.

Per rendersene conto è sufficiente sfogliare l’ultimo report di Antigone, nel quale si sottolinea giustamente che negli anni successivi alla sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, cioè in un frangente nel quale si adottarono misure deflattive che consentirono un temporaneo miglioramento delle condizioni di detenzione, il tasso dei suicidi negli istituti penitenziari subì un calo non trascurabile.

Per contrastare il fenomeno dei suicidi, dunque, sarebbe sufficiente adottare misure utili a contenere il sovraffollamento carcerario? Naturalmente no, anche se la limitazione dell’esorbitante affollamento che affligge gli istituti, magari avvalendosi di misure come la liberazione anticipata speciale, sarebbe comunque un importante passo avanti.

Oltre a questo aspetto, poi, l’assenza di un adeguato numero di psicologi, di funzionari giuridico-pedagogici e di mediatori culturali non aiuta di certo a contenere il tasso suicidario. Una seria riforma penitenziaria, infatti, oltre a dover valorizzare al massimo il principio dell’extrema ratio, limitando al minor numero possibile di casi l’accesso e la permanenza in carcere (riducendo l’utilizzo, oggi eccessivo, della detenzione cautelare ed estendendo l’utilizzabilità delle misure alternative), non può che passare anche attraverso un rafforzamento dell’organico delle professionalità che operano nell’ambito delle attività di risocializzazione e di salute mentale dei condannati.

Il Ministro Cartabia, sia nella veste di studiosa dei diritti fondamentali che nel suo ruolo di giudice e presidente della Corte costituzionale, ha sempre mostrato una spiccata sensibilità per i diritti dei detenuti e per il rispetto della loro dignità, la stessa dignità più volte richiamata, anche in relazione al carcere, nel discorso del Presidente Sergio Mattarella.

Portata a casa una riforma del processo penale che, tra luci e ombre, dovendo fare i conti con una maggioranza così eterogenea, ha in ogni caso consentito di lasciarsi alle spalle l’illiberale controriforma pentastellata della prescrizione, Cartabia dovrebbe ora tentare in tutti i modi di tradurre in risultati concreti le alte aspettative sulla materia penitenziaria nutrite nei suoi confronti, evitando che le promesse restino disattese come nel caso della deludente riforma del CSM promossa dall’esecutivo.

Al netto di una gestione migliore dell’emergenza pandemica nelle carceri rispetto a quella del predecessore Bonafede e di alcuni rilevanti eventi simbolici, come la visita a Santa Maria Capua Vetere, iniziativa di considerevole valore istituzionale ma ovviamente non risolutiva, le nostre carceri versano ancora in uno stato inaccettabile per qualunque democrazia occidentale.

Se da un lato è assai difficile pensare ad una riforma organica e ampia dell’attuale composizione parlamentare, dall’altro è più che mai necessario superare l’attuale ed inatteso immobilismo in materia. Dopo l’istituzione della “Commissione Ruotolo” (Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario), la recente proposta da parte del Ministro di una figura come quella di Carlo Renoldi a capo del Dap, in tal senso, è, per due ragioni, un segnale importante, di grande rilevanza politica, che, nonostante tutto, può far sperare in un cambio di passo.

Innanzitutto, con la sua candidatura Cartabia ha interrotto la ormai consolidata tradizione di proporre come capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria soltanto membri della magistratura inquirente (spesso peraltro provenienti dall’antimafia). Renoldi, infatti, è un magistrato, ma non è un pubblico ministero: è attualmente giudice della I sezione penale della Cassazione ed è stato in passato magistrato di sorveglianza. Inoltre, ed ecco la seconda ragione, il Guardasigilli con il profilo di Renoldi ha indicato un giurista noto per le sue posizioni garantiste e costituzionalmente orientate dell’esecuzione della pena, una impostazione che coltiva nel solco della lezione del suo maestro Alessandro Margara, padre della riforma dell’ordinamento penitenziario del ‘75.

In attesa che la nomina di Renoldi venga deliberata dal Consiglio dei Ministri, l’auspicio è che questa prima rilevante scelta non resti una monade isolata e segni, al contrario, l’avvio di una serie di interventi. Il Ministro Cartabia ne è consapevole: bisogna riportare la Costituzione nelle carceri, mettere fine al sovraffollamento e intervenire sull’emergenza suicidi. Non c’è più tempo.

*Presidente associazione Extrema Ratio