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di Francesco Petrelli*

La Stampa, 21 marzo 2023

La politica non ha mai avuto un rapporto sano con il carcere. Da argomento utile per ottenere un facile consenso elettorale a gogna alla quale esporre chi abbia manifestato improvvide intenzioni di attenuazione dei rigori delle pene. Difficile immaginare una possibile riconciliazione fra politica ed emergenza carceri che ponga al centro della questione giustizia una riforma condivisa, attraverso la quale ricondurre il carcere alle finalità rieducative cui la Costituzione lo aveva destinato. La strada dell’attuazione dei principi costituzionali non è in discesa e i tempi non appaiono propizi per un superamento degli schieramenti che hanno polarizzato l’opinione pubblica, lasciando prevalere nel linguaggio corrente formule contrarie ad una interpretazione del carcere come strumento di recupero e di risocializzazione.

Corrono infatti nella collettività slogan di chiara matrice viscerale ed istintiva, come quelli del marcire in galera, del buttare via le chiavi o della certezza della pena intesa come vendetta sociale, che rendono difficile aprire un varco nel tifo da curva che pervade questo genere di argomenti, dotati di una forte carica di emotività ma anche di un altissimo quoziente di politicità. Ma è proprio per questa ragione che deve sottolinearsi il nesso che corre fra l’esigenza di sicurezza che pervade la collettività e la restituzione del carcere ad un modello volto al reinserimento del condannato. E deve, in particolare, sventarsi quella truffa delle etichette in virtù della quale si fa largo nell’opinione pubblica la formula più carcere più sicurezza. Nulla di più errato e di più pericoloso, perché tutte le statistiche dimostrano che laddove il condannato fruisce di misure alternative alla detenzione, minori sono le possibilità di recidiva. Quanto meno il condannato fruisce di tali misure e tanto maggiore è la probabilità che torni a delinquere.

Secondo la magnifica metafora escogitata da un giurista del secolo scorso, risocializzare il condannato tenendolo in carcere è come voler insegnare a qualcuno a nuotare tenendolo fuori dall’acqua! Una detenzione disumanizzante, incapace di conservare e proteggere la dignità del condannato, una privazione della libertà che non tenga conto delle sue esigenze e che divenga uno strumento alienante che conduce alla disperazione e al suicidio, non è compatibile con una società civile e non ha nulla a che vedere con la sicurezza. Per questo motivo l’avvocatura penale ha denunciato con forza il dramma dei 25 suicidi che sono susseguiti, con la cadenza di uno ogni tre giorni, in questo nuovo anno, reclamando dalla politica un’assunzione di responsabilità rispetto a vite delle quali lo Stato dovrebbe essere garante, adottando con urgenza almeno quegli strumenti di riduzione del fenomeno del sovraffollamento, che sono all’attenzione del Parlamento. Si tratta di vite di giovani e meno giovani, di condannati definitivi e di imputati in attesa di giudizio, di cui l’intera collettività deve farsi carico, cessando di immaginare il carcere come una discarica sociale per i propri fallimenti.

*Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane