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di Renato Borzone

Il Dubbio, 11 gennaio 2023

Chiunque si occupi di giustizia penale sa bene che la verbalizzazione riassuntiva è per sua natura manipolativa, risentendo non soltanto della sintesi di chi redige il verbale, ma del suo interesse ad approfondire un tema tralasciandone altri.

Nei giorni scorsi, un interessante articolo di Valentina Stella su questo quotidiano ha riferito gli esiti di articolate ricerche (di natura legale, ma anche di psicologia giudiziaria) eseguite negli Stati Uniti e relative al tema delle “false confessioni”. Tema che si risolve, in realtà, negli escamotages o, se si vuole, eufemisticamente, nelle “tecniche” degli interroganti per conseguire risultati conformi alla loro ipotesi investigativa.

La questione è assai rilevante ed impone una riflessione anche su quanto accade nel nostro sistema giudiziario nel corso delle indagini preliminari, e su quanto potrà accadere alla luce delle recenti innovazioni legislative della ormai vigente normativa “Cartabia” quanto alle verbalizzazioni di persone sottoposte ad indagine e “informate sui fatti” da parte -in particolare- della polizia giudiziaria.

La premessa inevitabile è l’accantonare le ipocrisie e prendere atto come, da sempre, al di là della buona o mala fede degli interroganti, i verbali cosiddetti riassuntivi delle dichiarazioni rappresentano uno strumento assolutamente inadeguato a documentare la prova dichiarativa (e si parla di prova perché tali dichiarazioni possono essere utilizzate nel giudizio abbreviato o, comunque, per le contestazioni dibattimentali).

Chiunque si occupi di giustizia penale sa bene che la verbalizzazione riassuntiva è per sua natura manipolativa, risentendo non soltanto della sintesi di chi redige il verbale, ma del suo interesse ad approfondire un tema tralasciandone altri pur affrontati, con l’umana tendenza a valorizzare nel verbale determinate risposte piuttosto che altre e, comunque, a tradurle in un “proprio” linguaggio non necessariamente corrispondente a dichiarazioni articolate o sfumate.

Occorre perciò ribadire che, quando un individuo entra in una caserma o in un commissariato, si apre una “zona grigia” a volte inquietante che, se non può essere integralmente documentata dall’ingresso all’uscita, il che sarebbe pure talvolta interessante, può tuttavia esserlo quantomeno nella fase delle deposizioni che un soggetto rende. Al di là dei casi limite di cui la nostra storia giudiziaria non difetta, da Pinelli, ad Aldrovandi, a Cucchi, a Natale Hjorth, non è ignoto ad alcuno che nel corso delle audizioni, o prima delle stesse, possono essere esercitate pressioni sull’interrogato e tecniche di questo tipo lasciano il dubbio sull’operato forze dell’ordine anche quando, forse il più delle volte, non lo meriterebbero.

La realtà delle prassi investigative in relazione alla prova dichiarativa è nota a tutti coloro che frequentano gli ambienti giudiziari. La più comune, nei confronti di chi è chiaramente indagabile, è quella di ascoltare costui come semplice “testimone”, senza la presenza di un legale; e si ha un bel dire che tanto renderebbe non utilizzabili queste dichiarazioni se l’esperienza giudiziaria dimostra come la giurisprudenza largheggi con assai scarso pudore nel considerare utilizzabili (ad esempio in un giudizio abbreviato) le dichiarazioni rese con siffatte modalità, negando la sussistenza di precedenti indizi viceversa palesemente individuabili.

Ogni legale, poi, ha una propria casistica, che qui riporto da casi reali: interrogatori durati sei ore riassunti in quattro pagine di verbale; sospensioni delle deposizioni per ragioni non chiare o non individuate nel verbale cui seguono modifiche delle dichiarazioni rese fino a quel momento; tecniche di persuasione per convincere l’accusato che determinate sue ammissioni lo scagioneranno; verbalizzazioni incomplete che non consentono di percepire le sfumature del discorso; persone straniere interrogate con interpreti di dubbia professionalità o autonomia; modalità “aggressive” nel porgere le domande, oppure lasciando intendere di essere in possesso di elementi a carico, già raccolti, in realtà inesistenti.

Detto questo, chiunque può comprendere che -a prescindere dagli intendimenti degli interroganti- gran parte delle distorsioni, o se si vuole degli ingiustificati sospetti, potrebbero essere (quasi) radicalmente eliminati dalla più elementare delle modalità, oggi alla portata anche di un qualunque ragazzino della scuola media: l’audio o videoregistrazione delle dichiarazioni di indagati e testimoni nel corso delle indagini.

Appare perciò sinistra, almeno sul punto, la disciplina della cd. riforma Cartabia, laddove, nell’introdurre per la prima volta la “rivoluzionaria” possibilità di audioregistrare gli interrogatori e le informazioni testimoniali, la priva di fatto di ogni pratica applicazione introducendo, per ciascuna delle varie disposizioni che potrebbero prevederla, una serie di limitazioni, delle quali la più inquietante è la clausola secondo cui a tale registrazione si può derogare in caso di “contingente indisponibilità” di strumenti di riproduzione o di personale tecnico (?).

Ora, essendo del tutto evidente il livello della tecnologia, ormai elementare, necessaria, non sembra azzardato ipotizzare che qualche “manina”, nell’iter legislativo, abbia voluto salvaguardare quella zona grigia di cui sopra si è detto. E’del tutto evidente, infatti, che la semplice attestazione degli interroganti della assenza di mezzi idonei, peraltro sprovvista di ogni sanzione e della stessa possibilità di accertamento ex post, rischia, nel bel paese così abituato alle deroghe, di far rimanere lettera morta l’apparente miglioramento introdotto. Così come, l’aver lasciato al “testimone”, privo di interesse al riguardo, la scelta della richiesta di audioregistrare (salva sempre la disponibilità degli strumenti…), appare il voler ritirare con la mano sinistra quel che apparentemente si concede con la destra. Starà all’avvocatura, sul campo di battaglia, verificare ipotesi di questioni ed eccezioni per salvaguardare la complessità e genuinità della prova dichiarativa. Resta sempre, però, l’amarezza di riforme sempre parziali e poco coraggiose.