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di Sergio Lorusso

Gazzetta del Mezzogiorno, 27 marzo 2024

La giustizia riparativa non è strada comoda per sottrarsi a processo e pene tradizionali, ma qualcosa che si aggiunge per una “pacificazione” tra autore del reato e vittima. La giustizia riparativa approda sugli schermi, grazie al film Je verrai toujours vos visages (Vedrò sempre i vostri volti) proiettato nei giorni scorsi a Bari nella sezione Panorama Internazionale del Bif&st 2024. L’esperienza di restorative justice è nata in Francia nel 2014, con la Loi Toubira, ritenuta rivoluzionaria perché rivoluzionario è l’approccio al tema del reato che ispira tale modalità di giustizia: una modalità che, occorre sottolinearlo, non è sostitutiva della giustizia penale ma integrativa di questa, si affianca al processo che, anzi, può persino mancare (ad esempio nei casi di archiviazione o di intervenuta prescrizione).

Non è, in altri termini, una strada comoda per sottrarsi al processo e alle pene tradizionali, ma qualcosa che si aggiunge, al fine di realizzare una “pacificazione” tra l’autore del reato e la vittima. Nessuno sconto di pena, insomma, ma un passo verso una differente direzione; un passo, va ricordato, del tutto volontario. Si è detto che l’essenza della giustizia riparativa è nell’incontro, un incontro dal quale - secondo la visione di chi l’ha teorizzata - traggono vantaggio sia chi ha commesso il reato che chi l’ha subito. Sicuramente è fondata sul dialogo, quant’anche coinvolga persone differenti.

L’esperienza transalpina vanta dunque un background tale da poterla considerare sedimentata, un decennio è un tempo adeguato a formare le professionalità necessarie, in primis i cosiddetti “mediatori”, fondamentali per la riuscita del ravvicinamento tra chi, per opposte ragioni, sarebbe portato a “negare” l’esistenza stessa dell’altro. E per ispirare una regista, Jeanne Herry, che è una figlia d’arte (la madre è la nota attrice Miou-Miou, il padre è il cantante Julien Clerc) e che non ha realizzato un documentario sull’argomento ma un film in piena regola, nel quale si muovono vari personaggi, tra vittime e “carnefici”. Si parla di reati che vanno dallo scippo al furto con effrazione, dalla rapina alla violenza sessuale perpetrata in maniera incestuosa. È proprio quest’ultima vicenda, che coinvolge Chloé e suo fratello, a risultare di maggiore impatto emotivo e a mostrare - al contempo - le difficoltà cui si va incontro quando si tenta di ricomporre affrontando shock che hanno segnato le persone: la ragazza, sistematicamente violentata da bambina, rimane talmente traumatizzata da diventare a quindici anni una pornostar, per poi intraprendere un iter di “ricostruzione” della propria vita; il fratello, denunciato da Chloé tardivamente, processato e condannato, pretenderebbe che lei gli chiedesse scusa e sostiene che la stessa è stata consenziente. Due posizioni agli antipodi, due mondi inconciliabili, con cui si misurano gli addetti alla restorative justice. Non spoileriamo il finale, con l’auspicio che il film venga presto distribuito anche in Italia.

Perché anche nel nostro Paese esiste una giustizia riparativa, anche se molto più giovane. È stata la “riforma Cartabia” ad introdurla nel 2021, con la legge 134 che ha ispirato nell’anno successivo la disciplina organica dell’istituto. E se nella formazione della promotrice della normativa, il guardasigilli dell’epoca Marta Cartabia, giurista cattolica, si possono cogliere chiari e coerenti segnali in armonia con i concetti alla base della restorative justice (il perdono, in fondo, non è una forma di riparazione e di ricomposizione?), le prime applicazioni sono esigue e deludenti, per molteplici ragioni: per resistenze culturali, per scarsa formazione del personale addetto, per una certa riluttanza della classe forense che teme immotivatamente di essere espropriata del proprio ruolo.

Eppure la giustizia riparativa ha radici nell’antichità, basti pensare al sacrificio che era una forma di riparazione rivolta alla divinità; mentre nel mondo contemporaneo nasce a Kitchener, una città dell’Ontario a cavallo tra Canada e Stati Uniti, negli anni Settanta del secolo scorso, grazie all’iniziativa di due educatori che suggerirono al giudice per due minori responsabili di reati contro il patrimonio un programma di probation fondato su una serie di incontri con le vittime dei danneggiamenti e sull’impegno di risarcire con il lavoro i danni provocati. Per poi diffondersi in tutto il mondo. “La giustizia riparativa è uno sport da combattimento”, si dice all’inizio e alla fine del film, quasi a segnarne i confini. Ha delle regole precise, insomma, è fondata sulla lealtà, e lo scontro è in fondo solo un finto scontro, che mira a riequilibrare - quando ci riesce - un contesto seriamente lacerato.