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di Paolo Delgado

Il Dubbio, 8 luglio 2023

La premier non riteneva di aver sfidato il potere togato e, a torto o a ragione, ha vissuto le vicende Santanchè e Delmastro come un attacco diretto a Palazzo Chigi. Sbaglierebbe chi pensasse che una battagliera Giorgia Meloni si augurava di ritrovarsi in guerra aperta con la magistratura. La realtà è opposta. Se c’è una cosa che la premier non gradisce sono i panni di Silvio Berlusconi: proprio quelli che nel giro di due giorni si è ritrovata cuciti addosso. Del caso Santanchè è inutile parlare: tra bugie, ostentazioni oltre i confini della volgarità, pasticci amministrativi il caso sembra una puntata della saga berlusconiana trasmessa per errore in una serie di tutt’altro stile. Nel braccio di ferro con la magistratura le cose stanno anche peggio. Alleata con Fi (e con la Lega), dopo oltre un decennio passato a spalleggiare il Cavaliere nel braccio di ferro con le toghe, la leader di FdI è costretta in una posizione scomoda: per indole e convinzioni politiche almirantiane lei si troverebbe a più in veste giustizialista che non in quella garantista.

Nei primi mesi di governo, di conseguenza, è andata giù molto più leggera di quanto le promesse elettorali e la scelta di nominare Nordio guardasigilli inducevano a prevedere. Non è un caso che la stessa opposizione ha sinora sempre commentato le modifiche introdotte dal ministro della Giustizia, pur criticandole nel merito, con la classica espressione: “La montagna ha partorito il topolino”.

Di certo implicitamente, probabilmente anche con qualche contatto magari indiretto, forse con la triangolazione del Colle o tramite ambasciatori vari, la presidente ha cercato un tacito accordo con il potere togato ed era convinta di averlo trovato. Da una parte il rallentamento sino alla paralisi delle riforme più invise alla magistratura, prima fra tutte la separazione delle carriere, dall’altro una sorta di “non belligeranza”. In ogni caso, con o senza conciliaboli anche a distanza o espliciti scambi di segnali, la premier non riteneva di aver sfidato il potere togato e, a torto o a ragione, ha vissuto la vicenda Santanchè come un attacco diretto, confermato poi dalla imputazione coatta di Dalmastro.

Da questo punto di vista che l’offensiva contro il governo e il partito della premier o che si tratti solo di fantasie venate di paranoia è secondario. Quel che conta è che come un attacco le due vicende sono state interpretate, che a palazzo Chigi sono tornate in auge espressioni come “giustizia a orologeria”, che i giornali vicini alla destra hanno rispolverato il più classico tra i classici berlusconiani: il dito puntato contro le “toghe rosse”.

La spiegazione che a Chigi si danno dell’offensiva, vera o presunta, è semplice: una parte della magistratura ritiene che l’eliminazione del reato di abuso d’ufficio sia già troppo e che sia quindi necessaria una reazione dura. Non è un caso che in tutte le dichiarazioni delle ultime 48 ore si alluda a “una parte della magistratura”. Ai tempi di Berlusconi la divisione tra una magistratura buona e una parte invece politicizzata e ostile alla destra era puro artificio retorico. In questo caso ha un senso più concreto, l’allusione è a quella “parte della magistratura” che non è disposta ad accettare nessuna riforma, neppure se contenuta e non deflagrante.

L’uscita durissima di palazzo Chigi giovedì sera e poi quella del ministero della Giustizia di ieri hanno già bruciato molti ponti alle spalle del governo. È probabile che nei prossimi giorni una quantità di figure istituzionali e non cerchi con la dovuta discrezione di riaprire canali di dialogo per impedire che si torni alla situazione dell’epoca berlusconiana, a un fronteggiamento da guerra totale tra poteri dello Stato. Ma le probabilità di riuscita sono esigue. In questi due giorni ad attizzare il fuoco non sono stati parlamentari in libertà o sottosegretari bellicosi. Sono stati palazzo Chigi e via Arenula, la presidenza del consiglio e il ministero della Giustizia, quest’ultimo, ieri, con parole pesantissime: “L’imputazione coatta di Delmastro dimostra l’irrazionalità del sistema. È necessaria una riforma radicale”. E sul caso Santanchè: “Soncerto e disagio per l’ennesima comunicazione a mezza stampa di un atto che dovrebbe rimanere riservato. La riforma proposta mira a eliminare questa anomalia”. Significa che una nuova tornata di provvedimenti è dietro l’angolo, spinta ulteriormente, inevitabilmente, anche dal caso La Russa. È presumibile che la magistratura, o “una parte” della stessa, reagirà malissimo al nuovo colpo e l’eventualità che si inneschi una spirale inarrestabile c’è davvero tutta.