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di Gianpaolo Catanzariti*

Il Dubbio, 6 ottobre 2023

Passano i governi, cambiano i ministri, mutano le maggioranze, ma la polemica incandescente tra politica e magistratura, specie se associata e magari con lo sguardo rivolto a sinistra, quella non cambia mai. Si pensava che il tramonto politico, prima, di Berlusconi e quello esistenziale, dopo, potesse sopire le turbolenze e le polemiche tra i poteri. E invece… e invece. Siamo alle solite. Stavolta la miccia l’ha innescata un giudice del tribunale civile di Catania che ha deciso di non convalidare il provvedimento di trattenimento emesso nei confronti di alcuni immigrati tunisini, provocando una reazione a catena in diversi ambiti. Dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che, con opportunistica superficialità, aveva liquidato la interessantissima lettera di Marina Berlusconi sull’ennesima inchiesta giudiziaria mossa, post mortem, nei confronti del Cavaliere, sino ai giornali ritenuti vicini al centro- destra che hanno scovato posizioni “politiche” assunte in passato dal magistrato catanese contro la politica anti- migranti dell’ex ministro Matteo Salvini.

Quindi l’iniziativa (solita) di apertura, al Csm, di una pratica a tutela del giudice Apostolico (chissà perché lo strumento della tutela viene sempre utilizzato dal Csm quando le critiche provengono dalla politica o dalla avvocatura e mai - e ribadisco, mai - quando l’indipendenza e l’autonomia del giudice viene pubblicamente, in tv o sui giornali, calpestata da quei magistrati, meglio se pubblici ministeri in lotta, alla continua ribalta mediatica). Intendiamoci, una polemica stucchevole da entrambe le parti e che rappresenta, però, come scarso sia il senso di responsabilità delle funzioni assunte. Ad ogni livello.

Del tutto carente in seno a questa maggioranza politica che alimenta nel nome delle c. d. emergenze - vere o presunte che siano, poco importa - ogni rigurgito di pancia. Sia esso il carcere, la delinquenza minorile o la esplosiva situazione dei migranti, si immagina sempre di affrontarle con grida e schiamazzi. Ma altrettanto carente appare in seno alle rappresentanze istituzionali della magistratura, intente a osservare con insistenza il proprio ombelico. Nessun dubbio sulla legittimità della decisione adottata dal giudice di Catania sulla mancata convalida. Ci mancherebbe! Certo, alla luce di determinate posizioni politiche assunte pubblicamente nei confronti della politica anti- migranti dell’allora ministro Salvini, nessuno può pretendere, men che meno il giudice Apostolico, che la sua decisione non si esponga e non la esponga alle altrettanto legittime critiche “politiche”. Magari non della presidente del Consiglio, ma delle forze politiche che sostengono l’attuale maggioranza, sì.

Piaccia o no, la, seppur sottile, ma vitale per la democrazia, linea di separazione tra la funzione politica appartenente alle rappresentanze della società e la funzione giurisdizionale attribuita alla più privilegiata categoria di funzionari pubblici, quella dei magistrati, non può essere cancellata a seconda delle simpatie o antipatie verso le classi politiche del momento. Non a caso esiste un divieto di partecipazione, in capo ai magistrati, alla vita dei partiti, al punto che l’eventuale iscrizione ad essi li espone ai procedimenti disciplinari e alle relative sanzioni.

Di recente (sent. 170/ 2018) la Corte costituzionale è intervenuta per salvare dalla denunziata illegittimità del Csm (non a caso) proprio la disposizione di legge che sanziona disciplinarmente l’attività politica dei magistrati. Secondo la Consulta, “in linea generale, i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino”, ma “le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono indifferenti e prive di effetto” per l’ordinamento costituzionale tanto da aver stabilito dei limiti all’esercizio di quei diritti. Sia in ragione della particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dei principi costituzionali di indipendenza e imparzialità (artt. 101, 104 e 108, Cost.) che le caratterizzano. Essi, appunto, vanno tutelati non solo con specifico riferimento all’esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche quali criteri ispiratori di regole deontologiche da osservarsi in ogni comportamento di rilievo pubblico, al fine di evitare che dell’indipendenza e imparzialità dei magistrati i cittadini possano fondatamente dubitare. “La Costituzione, in tal modo, mostra il proprio sfavore nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche della apparenza di queste ultime: sostanza e apparenza di principi posti alla base della fiducia di cui deve godere l’ordine giudiziario in una società democratica”.

Il difficile equilibrio tra politica e magistratura appare ancora compromesso e non sembra assolutamente incanalato verso un binario più ragionevole e democraticamente accettabile, come segnala bene l’editoriale di Davide Varì a commento della mozione conclusiva del congresso di Area laddove si teorizza un “nuovo modello di magistrato”, per “uscire dalle aule dei tribunali e partecipare al dibattito pubblico” per “tenere accesa la luce quando il buio si farà più fitto”. Per carità, nulla di nuovo sotto il sole, per la società italiana. La storia della magistratura, quella associata, è piena di manifesti programmatici e politici dal sapore, senza dubbio, rivoluzionario anche rispetto al modello costituzionale del 1948.

Nel nome della “giustizia virtuosa” e del protagonismo sociale e politico del magistrato teorizzato e praticato nei momenti critici del nostro passato, dalla contestazione giovanile all’autunno caldo, dal 1977 a tangentopoli, troppe volte abbiamo assistito a iniziative ardite, a processi, specie penali, diventati non più sedi naturali di accertamento dei reati, ma vere e proprie “arene”, strumenti di lotta politica e regolazione sociale. Con l’aggravante, dei nostri giorni, della paurosa latitanza della politica, non più in grado di esercitare il ruolo guida delle nostre comunità, come dimostra la presenza al congresso di Area della segretaria del Pd, Elly Schlein, e del capo dei 5S, Giuseppe Conte, probabilmente in sala per comprendere gli umori dei magistrati e orientare, così, le loro scelte politiche.

*Avvocato