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di Gianpaolo Catanzariti

Il Dubbio, 8 giugno 2023

Rovistando nell’archivio di mio padre, ho ritrovato un pezzo di giornale, ingiallito dal tempo, da lui scritto per L’Unità di allora, il giornale fondato da Antonio Gramsci e organo ufficiale del PCI, pubblicato il 9 settembre 1958. Ha un titolo inusuale per i nostri giorni, specie per un giornale politico con una rappresentanza parlamentare. “Indegna montatura ad Africo sul gesto di un senzatetto”. Con un occhiello profetico - Come opera il “governo sociale” - ed un sottotitolo altrettanto significativo “Il dramma del bracciante che occupò una cappella abbandonata - Intervenuti i Carabinieri”. In evidenza, una foto in bianco e nero. Un uomo dal volto scuro e segnato dalla fatica, con un cappello in testa; al suo fianco, una donna dai capelli intrecciati, con in braccio un bimbo riccioluto e dagli occhi, che immagino vispi, neri e impermeabili alle brutture della condizione familiare disagiata.

Era la “presa diretta” di una pagina di cronaca avvenuta nel fazzoletto di terra, sito nel comune di Bianco nel reggino, costituito da una “collina talmente arida da non permettere, in mancanza delle opere necessarie di trasformazioni, neanche una discreta attività agricola”, in prossimità del mar Jonio e senza nemmeno una delimitazione territoriale definita. In quella riserva indiana erano stati costretti a trasferirsi, a seguito della tremenda alluvione del 1951, gli “Africoti”, privati della loro terra, dei loro pascoli aspromontani, su decisione alquanto controversa e che aveva fatto, pur con nobili intenzioni, di un popolo montano, un insieme di individui, privi di identità, di cittadinanza, espulsi dal loro mondo e consegnati, come e più di altre popolazioni reggine, ad un destino inesorabile, “O emigrante, o brigante”.

L’articolo non era altro che la contro narrazione al mattinale consegnato a un giornale locale da uno Stato che mostrava ai cittadini di questo lembo d’Italia, per molti versi ancora sudditi di una colonia, privi di dignità e diritti, la faccia arcigna di una legalità, non certo strumento per la realizzazione ed il perseguimento dei valori e dei principi costituzionali, quanto piuttosto una ideologia al servizio e per il consolidamento di un potere “legibus solutus” rispetto ai cittadini e ai loro diritti.

Il bollettino ufficiale dell’ordine costituito, pubblicato dal quotidiano locale, era inequivoco. Dal titolo, “Sgomberata ad Africo nuovo una famigliola che aveva occupato una chiesa in costruzione”, alla conclusione del resoconto “un caldo plauso all’opera della magistratura… ed all’attività dei solerti militi dell’Arma”.

Era avvenuto, in sintesi, che un giovane bracciante di Africo, spossessato della sua terra e costretto a lasciare quel paese, povero, ma almeno “suo”, con moglie e figlioletto di poco più di 1 anno e qualche utensile, segno tangibile di una modestissima economia domestica, “preso dalla disperazione per la mancanza della casa cui ha diritto in quanto alluvionato”, promessa e mai consegnata, aveva deciso di portarsi presso “un locale abbandonato, che era stato utilizzato provvisoriamente come chiesa”. “Questa abitazione con le porte aperte, incustodita, veniva perfino utilizzata” durante le ore diurne “dai bambini per i loro giochi, dal momento che era stata costruita una sede migliore e più accogliente per la chiesa parrocchiale” ove si era spostata.

Salvatore Pangallo, così si chiamava quel bracciante, sfrattato e senza un tetto, aveva deciso di occupare quel locale sconsacrato e senza porte, non potendo più sopportare di vivere sotto il cielo stellato o piovoso. E lo aveva fatto nonostante “tuoni e fulmini” del prete del paese, fratello del sindaco di allora, tutti legati al partito politico, unico detentore del potere.

Ma le invettive del parroco finiscono sul tavolo di un funzionario che aveva avuto la fortuna di vincere un concorso, assegnato alla Procura di Locri. Così, il 30 agosto del 1958, alle 5 del mattino, un sostituto procuratore della Repubblica, designato per l’occasione, unitamente ad un capitano e ad un tenente dei carabinieri, si recava per liberare i luoghi abbandonati e senza portone, mettendo sulla strada quel nucleo familiare disperato che aveva osato commettere sacrilegio. Finalmente, era stata ristabilita la legalità violata, grazie all’opera della magistratura e dei solerti militari dell’Arma.

In realtà, agli occhi di mio padre, Salvatore Pangallo, sua moglie e il piccolo di poco più di un anno, apparivano non proprio dei banditi incalliti, quanto, piuttosto, le vittime senza voce di una ottusa, insensata e burocratica legalità. Persone che avrebbero visto troppe volte la faccia ostile di uno Stato patrigno che non aveva avuto esitazione alcuna, in nome dell’ordine costituito, ad abbandonarli in una piazzola fuori della chiesa diroccata, con tutto quello che avevano. Un tavolo, poche sedie e materassi con pannocchie di granturco, costretti ad accettare saltuarie ospitalità d’emergenza in case disadorne di qualche parente o amico.

Eppure, Salvatore Pangallo, come gli “africoti”, aveva manifestato, protestato, rivendicato il proprio diritto elementare all’abitazione e alle altre infrastrutture basilari. Lo aveva fatto, pur senza conoscerne il testo, in ossequio alla Costituzione italiana. Lo aveva fatto perché immaginava di poter offrire al piccolo riccioluto un posto nel mondo “civile” promessogli.

Più volte mi sono domandato come possa essere cresciuto quel piccolo che ha avuto la colpa di essere nato ad Africo. Quale strada possa avere intrapreso. Se abbia trovato un posto dignitoso nel mondo di oggi e se possa essersi sentito, finalmente, cittadino per i suoi diritti riconosciuti. O se anch’egli abbia ingrossato le file del 45% di popolazione detenuta, nata nelle 4 regioni meridionali più popolose; magari poi sarà stato pure assolto, ma senza riparazione alcuna. Ai più la risposta potrà apparire facile e immediata. Una cosa però penso di immaginarla senza dubbio. Quel bimbo, divenuto uomo, con circa 65 anni di età, non avrà sentito di affiancare, festante, i partecipanti istituzionali all’inaugurazione della nuova caserma dei carabinieri. E francamente, nonostante polemiche e invettive di scandalo, quel bimbo, fattosi adulto, non penso possa essere biasimato o facilmente etichettato come ‘ndranghetista per non essere stato lì in piedi a salutare un presidio usuale della fredda legalità che già in passato lo aveva spinto, senza colpe, in mezzo alla strada se non addirittura verso una strada di devianza.