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di Davide Grittani

Corriere del Mezzogiorno, 17 marzo 2023

Ricordando Mariateresa Di Lascia, militante e scrittrice, nei 30 anni di “Nessuno tocchi Caino”. Fateci caso, uno degli intercalari cui ricorriamo con maggiore frequenza è “speriamo marcisca in galera”. Così come quando la rabbia tracima in vendetta e una delle affermazioni che più ci sembrano adeguate per manifestare tutta l’indignazione è “chiudetelo in cella e gettate via la chiave”. In barba a secoli di Umanesimo e alle radici stesse della nostra Costituzione, non riusciamo a emendarci dalla percezione afflittiva della detenzione, spesso così denigratoria (si pensi all’espressione “avanzo di galera”) che la riabilitazione rimane retorica più che obiettivo.

Ecco perché il dibattito sulla detenzione di Alfredo Cospito ha spaccato in due il Paese, riproponendo con violenza il tema delle condizioni in cui vivono 55 mila detenuti in Italia. Sia Amnesty International che Nessuno tocchi Caino si sono pronunciati sul caso dell’anarchico (detenuto per aver gambizzato l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi), tuttavia ai più sembra sfuggito che questa vicenda coincide coi 30 anni dalla nascita dell’unica organizzazione italiana contro la pena di morte.

Nessuno tocchi Caino nacque nel 1993 su iniziativa della scrittrice e attivista radicale foggiana Mariateresa Di Lascia. C’è la sua firma (oltre a quella del marito Sergio D’Elia, ex dirigente radicale e della formazione terroristica Prima linea) sullo statuto con cui fu fondata come “lega di cittadini e di parlamentari per la moratoria delle esecuzioni capitali, in vista dell’abolizione della pena di morte nel mondo”. Così come c’è la sua firma su tutte le proteste di piazza cui riuscì a partecipare, fino a quando un male incurabile se la portò via (10 settembre 1994) senza darle il tempo di assistere all’uscita del romanzo Passaggio in ombra (Feltrinelli, 1995) con cui vinse il premio Strega (unica assegnazione postuma insieme a quella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo).

Ai tempi nessuno gli attribuì molta importanza, ma la presenza di Mariateresa Di Lascia in Nessuno tocchi Caino era più forte e simbolica della “sola” militanza radicale. La Puglia era stata la regione in cui avevano rinchiuso Antonio Gramsci e Sandro Pertini (a Turi), la regione del confino riservato agli omosessuali durante il regime fascista (isole Tremiti), la regione dotata di una sezione idonea al regime più severo previsto dal nostro ordinamento (41 bis, a Bari) e infine la regione in cui sono attualmente detenute oltre 4500 persone mentre il limite consentito sarebbe di 2000. Insomma una origine non casuale, che evidentemente Mariateresa - così come dicevano i parenti di Rocchetta Sant’Antonio, suo paese natale - voleva “onorare intellettualmente”.

Per motivare il suo impegno per Nessuno tocchi Caino, si potrebbe ricorrere a uno dei passi più toccanti proprio di Passaggio in ombra: “Quando aveva pensato a cosa sarebbe stata la sua vita, a quale forma si sarebbe piegata ad avere, se mai ne avesse avuta una, aveva sentito qualcosa ribellarsi dentro sé, come per una insopportabile imposizione. Allora aveva avuto un solo desiderio: conservare il più a lungo possibile, forse per sempre la libertà di non avere nessuna forma”. A cui varrebbe la pena aggiungere lo storico saluto di Marco Pannella, quando lo informarono della morte dell’attivista foggiana: “Aveva un’idea della libertà personale molto alta, come una specie di condizione poetica da cui nemmeno il peggiore degli assassini al mondo poteva essere spodestato. Lei sapeva fare distinzione tra necessità della pena e condizione della pena, perché quello che si dimentica troppo spesso è che le condizioni in cui vivono i detenuti non possono indurre a nessuna redenzione… se non a incarognirli ulteriormente contro la vita e contro la nostra società”.

Oggi come allora Nessuno tocchi Caino si batte per le stesse cause, ma forse a 30 anni dalla fondazione sta venendo meno quello spirito radicale che in breve tempo la impose come l’organizzazione non governativa tra le più attive (al mondo) in favore dell’abolizione della pena di morte e delle torture durante la detenzione. La presiede Rita Bernardini, mentre Sergio D’Elia (condannato a 12 anni per banda armata e concorso morale in omicidio) ne è segretario, tuttavia sono in molti a ritenere che “lo spirito di Mariateresa Di Lascia sia andato perduto per sempre”. Il caso Cospito rimette al centro della discussione l’uomo oltre i propri reati, la dignità oltre la consistenza (e la necessità) delle pene. Chissà che ne avrebbe pensato Mariateresa, alla memoria della quale da anni ormai dovrebbe essere dedicata una struttura per la detenzione femminile con all’interno una sezione per infanti e bambini, ma arrivati sul più bello le procedure s’incagliano sempre su quello stigma malcelatamente taciuto. In fondo sono “avanzi di galera”.