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di Fabrizia Giuliani

La Stampa, 25 novembre 2023

C’è un prima e dopo Giulia, non c’è dubbio. In questa storia non ci sono mostri, periferie degradate, famiglie in pezzi; non ci sono droghe, vite eccessive, problemi di salute mentale, cattivi maestri. Gli alibi, insomma, sono caduti, non c’è più modo di spingere la violenza - i suoi autori - in una zona che ci faccia sentire al sicuro, in condizione di dire “non io, non noi”. Il suo assassinio ha una valenza periodizzante, direbbero gli storici, è uno spartiacque. L’ha acquisita perché ha reso ineludibile un dato che fino ad ora si è provato rimuovere o a definire in altro modo, ossia che la violenza contro le donne - anche qui, nei nostri confini, nelle nostre case - è una reazione all’esercizio della loro libertà. Ed è una guerra aperta, anche se fatichiamo a riconoscerla e chiamiamo le cose per nome solo quando i fatti, con la loro ostinazione, ci costringono a farlo.

I dati che Istat ci mette davanti da anni, ma che non vogliamo capire, si mostrano qui in tutta la loro chiarezza: nello scarto tra una libertà femminile che corre veloce, generazione dopo generazione, trasmettendo speranze, desideri e aspettative e un privato - famiglie e relazioni - che ancora la respinge. Perché se le norme che conservavano il vecchio ordine sono cadute, le leggi non scritte che lo riproducono nelle case, nelle teste e nelle relazioni sono ancora vive, il loro esercizio non del tutto interdetto. Guardiamo ai due rifiuti che segnano questa storia: la separazione e la laurea. Sono cose distinte, sembrano appartenere a domini diversi, ma invece collassano nella catena degli eventi che porta al sacco, al dirupo e al lago. L’ultimo gesto di Giulia, prima di salire in macchina con Filippo che non accetta il suo allontanamento, è l’invio della tesi alla relatrice con le correzioni apportate: il lavoro è pronto per essere caricato dal sistema e presentato alla Commissione, convocata per la seduta di laurea del 16 novembre; la sedia, però, giovedì rimane vuota: non c’è discussione né proclamazione.

Bisogna partire da qui, dalla corsa di Giulia e dalla paura di Filippo per capire cosa è oggi la violenza, se non si vuole restare inchiodati all’incredulità: sono giovani, chi mai avrebbe pensato. Sì, sono i giovani perché le ragazze - non più un’élite ma tante - sono cambiate, praticano su ogni terreno una libertà inedita che parte dei loro coetanei non accetta. Se la violenza maschile ha segnato la storia umana, questi femminicidi sono un fenomeno nuovo, la reazione rabbiosa a una autonomia imprevista: lo diciamo da tempo ed è positivo che l’analisi venga condivisa anche da voci maschili. Perché aveva ragione Hobsbawn quando affermava che la rivoluzione delle donne è la sola riuscita nel Novecento, ma aveva torto nel definirla pacifica: agire liberamente - chiudere una storia, perseguire la realizzazione del proprio talento, dire non mi va, non voglio - può costare la vita a una donna anche qui, nei nostri confini e nelle nostre case. Lottare contro la violenza vuol dire, dunque, lottare perché sia garantito alle donne l’esercizio della loro libertà: questo punto dovrebbe essere chiaro e soprattutto condiviso. La scelta del Parlamento di votare insieme le ultime misure di contrasto è un segno di maturità, fa pensare che si sia ritrovato il senso della rappresentanza e si siano riaperti i canali di trasmissione tra la società e i partiti. Dovrebbe essere superfluo ricordare che arrivare ad un accordo non vuol dire rinuncia all’appartenenza, ma mediazione e politica. Se si preferisce: la ritrovata capacità di riconoscere la libertà di cui questo tempo ha bisogno.