di Francesco Petrelli*
Il Dubbio, 18 novembre 2023
Non siamo ingenui. Nessuno pensa che gli equilibri fra i diversi partiti di maggioranza o l’insorgere di diverse esigenze e priorità non possano mutare i programmi di un governo. O che la dialettica politica propria di un’azione di governo non possa essere condizionata dalla ricerca dei pur necessari equilibri fra i poteri dello Stato. Ma se in passato eravamo abituati ai colloqui fra rappresentanti dell’Associazione Nazionale Magistrati e i Ministri o all’”influenza” esercitata dai magistrati fuori ruolo all’interno del Ministero della Giustizia, in questo caso il confronto si è svolto direttamente fra i più alti rappresentanti del Governo e la Procura Nazionale Antimafia, che costituisce una superprocura sotto tutti i profili, nella normativa che la istituisce, nei fatti con i quali opera e nell’immaginario collettivo. Si tratta del più potente dispositivo giudiziario, articolato in ventisei Procure Distrettuali, sul quale si fonda la stessa capacità investigativa e repressiva dello Stato. Risulta piuttosto evidente come a tale potere giudiziario corrisponda un altrettanto ampio potere politico, esemplificato non solo dalle molteplici transizioni dei Procuratori Nazionali Antimafia all’interno dei singoli partiti e del Parlamento, ma rappresentato in particolare dalla attenzione che i desiderata di tale Ufficio ricevono oramai da parte del Governo.
È per questo motivo che le parole spese dalla Presidente del Consiglio all’incontro con i Procuratori Distrettuali, avvenuto pochi giorni fa presso la sede di Via Giulia a Roma, devono essere lette con attenzione: “Mi aspetto - ha detto Giorgia Meloni al Procuratore nazionale - che anche quando non fossimo completamente d’accordo sulle norme che vanno portate avanti, questo non diventi uno scontro tra poteri. Perché si possono avere punti di vista diversi, ma ciò non vuol dire che non stiamo lavorando per lo stesso risultato. Perché si lavora sempre per lo stesso datore di lavoro, lo stato italiano, e contro lo stesso avversario”.
Non dice la Premier quali sono le norme sulle quali si potrebbe non essere d’accordo, ma offre invece un quadro chiarissimo nel rappresentare quale sia l’oramai imperante ideologia del processo che vale la pena di decifrare. Corre infatti una visione militare della Giustizia e dello Stato - bizzarramente inteso come un “datore di lavoro” - alla cui vittoria concorrono assieme la politica e le Procure Distrettuali.
Ora, se immaginare la politica e le procure che lottano assieme contro la criminalità può rassicurare qualcuno, questa immagine suscita in noi qualche non ingiustificata perplessità per il semplice fatto che c’è una politica che si identifica interamente ed esclusivamente con il potere punitivo dello Stato. Una simile visione del processo e della giustizia penale elimina totalmente dal suo orizzonte i giudici che quella stessa giustizia dovrebbero amministrare.
Inevitabile porsi una domanda: in tutto questo, i giudici da che parte dovrebbero stare, su quello stesso fronte di guerra accanto alla politica e alle Procure? E infine e non da ultimo, i cittadini dove sono? Questa visione alterata e belligerante della giustizia finisce infatti per emarginare proprio quelli che dovrebbero essere i punti di riferimento di uno stato di diritto costituzionale: i titolari e i garanti dei diritti. Una visione distante dalla visione liberale nella quale l’autorità dello Stato esercita la sua potestà punitiva restando sempre in equilibrio con le insopprimibili libertà fondamentali ed i valori della costituzione. Si sta qui assistendo ad una sorta di upgrade nella dislocazione utilitaristica dei diversi poteri, che va ben oltre quel fenomeno da noi più volte denunciato dei magistrati fuori ruolo collocati all’interno del Ministero della Giustizia, e che va piuttosto realizzando una nuova insolita alleanza fra la visione illiberale ed autoritaria del diritto penale e i gangli conservatori del potere giudiziario inteso soprattutto come indiscussa conservazione del suo autarchico status quo. Siamo qui di fronte a due distinti problemi. Il primo riguarda il Ministro e le sue ambizioni “garantiste” travolte da quel patto. Il secondo riguarda quella cosa che si chiamava Politica. Due problemi evidentemente connessi. Infatti, a fronte di quella profonda degenerazione dei rapporti fra poteri dello Stato, della quale non ci si avvede e non ci si cura, sono oramai evidenti i segni di una turpe degenerazione del diritto penale, inteso come una sorta di slot- machine di nuovi reati e di nuova penalità. Basti pensare al nuovo pacchetto- sicurezza ed allo spirito puramente carcero- centrico, repressivo e securitario che lo anima, in quella chiave puramente simbolica che il populismo penale predilige. Per non dire del processo penale oramai trasformato in un pericoloso gioco dell’oca, collocato fuori dal paradigma dell’originario modello accusatorio, nel quale le sanzioni poste a garanzia dei diritti sono state sopravanzate dalle inammissibilità volte a tutelare paradossalmente il processo dall’esercizio dei diritti dell’imputato. Di questa oramai vincente truffa delle etichette dovrebbe farsi carico la stessa informazione, mettendo in guardia l’opinione pubblica dai rischi di simili retoriche giustizialiste che fingendo di assecondare un’esigenza di sicurezza, finiscono con l’erodere il difficile equilibrio che corre fra l’Autorità dello Stato, la libertà e le garanzie dei cittadini.
*Presidente Unione Camere Penali Italiane