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di Elton Kalica

Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2022

È morto Maurizio. Si è tolto la vita nel carcere di Verona. Aveva poco più di settant’anni. Il giudice lo aveva condannato a sette anni per essere entrato in banca con un taglierino e aver rapinato la cassa. Al processo Maurizio ha sostenuto la sua innocenza. Invece l’assoluzione è arrivata solo per i suoi due presunti complici, suoi coetanei. Per lui invece una sentenza dura, che forse non voleva tanto retribuire la società delle poche centinaia di euro sottratte alla banca, quanto invece punire il nonno rapinatore per la sua scelta di vita.

Ho conosciuto Maurizio nel 2006, quando entrò a fare parte della redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova. Sapeva poco di computer e scrittura, ma aveva una vasta conoscenza del carcere. Detenuto dal 1976, era uscito sì, poche volte. Periodi brevi, conclusi sempre allo stesso modo. Maurizio rifiutava l’idea di derubare le persone o di fare altri reati, era un bandito ma un “bandito di altri tempi” per cui colpire le banche aveva una sua “morale”.

Passata qualche settimana a guardarsi intorno, Maurizio si è talmente appassionato del lavoro di redazione che ha imparato velocemente ad usare il computer diventando una risorsa indispensabile. Lavorava continuamente. Partecipava con entusiasmo alle riunioni. Eravamo più di trenta detenuti a quei tempi in redazione. Diverse età, diverse etnie, diverse storie. Nonostante la rigidità apparente dei suoi principi da bandito e dei suoi codici da detenuto, riusciva sempre ad apportare un contributo costruttivo. Sapeva convertire i suoi tanti anni di esperienza carceraria in chiavi interpretative dei problemi che andavamo analizzando. Poi si portava le registrazioni in cella e le sbobinava offrendoci materiale prezioso su cui continuare a lavorare. Era sempre attivo nell’organizzazione dei convegni, gli piaceva stampare le etichette, preparare il materiale da distribuire ed era il primo ad aiutare i più giovani a scaricare le sedie e metterle in fila. Degli incontri con le scuole non ne perdeva uno. L’idea di fare prevenzione lo entusiasmava. Portava sempre la sua testimonianza raccontando le conseguenze delle sue scelte di vita: usava spesso anche l’autoironia per dire ai ragazzi che non c’è nulla di eroico nella vita del rapinatore, solo tantissima galera.

A un certo punto ha ottenuto un lavoro esterno. Come tanti altri abbiamo sperato di non vederlo più sul giornale, ma dopo qualche mese abbiamo saputo che i suoi sessant’anni non gli avevano impedito di affrontare di nuovo il bancone di una filiale diventando per le cronache il nonno rapinatore. Così ha ricevuto altre condanne ed è finito al centro clinico del carcere di Opera. Non ne ho più saputo nulla per diversi anni, fino a quando ho letto sul giornale che era stato trovato alla stazione di Bologna accasciato per terra con il peacemaker scarico. Quindi arrestato in quanto evaso dagli arresti domiciliare che gli erano stati concessi perché malato. Forse, oltre all’evasione gli è stata poi contestata anche la rapina. Così, credo che sia stato condannato ad altri sette anni di carcere.

Mentre la cronaca si diverte a chiamarlo il nonno rapinatore, io continuo a ricordarlo come attivista che scriveva per cambiare il carcere. E ricordo che dopo l’indulto del 2006 c’era stato un ritorno alle politiche di carcerizzazione con un aumento del numero dei suicidi. Ecco di fronte a tale tragedia mi è venuto in mente proprio un articolo che Maurizio aveva scritto in quel periodo. Diceva che “Il suicidio credo sia un attimo in cui il buio ti travolge, e non ti fa razionalmente capire cosa stia succedendo: io in carcere a volte ho passato quell’attimo, poi la ragione torna a riprendere il suo posto, e non si arriva più ad un gesto così estremo”(1).

Non so se il suicidio di Maurizio sia stato un attimo di travolgente buio che ha sopraffatto la ragione. Quello che invece penso è che Maurizio non doveva essere condannato con la pesantezza con cui lo avevano condannato nel 1979. Non un settantenne accusato di aver portato via poche centinaia di euro da una banca. Così come sono convinto che non doveva essere detenuto in carcere. E chiudo questo ricordo di Maurizio citando ancora il suo articolo, “Mi chiedo se è giusto che tante persone muoiano in galera in una società che orgogliosamente si vanta di aver presentato all’ONU la moratoria contro la pena di morte, così lodevole sotto il profilo umanitario. E mi domando anche se non sia il caso che chi si batte contro la pena di morte cominci a indignarsi e a chiedere a gran voce che si faccia di più perché in carcere si muoia un po’ meno. O forse è meglio lasciare le cose come stanno, tanto, chi può scandalizzarsi se si suicida un detenuto, cioè un emarginato dalla società? alla fine non se ne accorge quasi nessuno, se non i suoi stessi famigliari”.

(1) “In carcere le persone sono più fragili, serve più attenzione a chi sta male”, di Maurizio Bertani, Ristretti Orizzonti, dicembre 2007