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di Lirio Abbate

L’Espresso, 5 giugno 2022

La delega in bianco alla magistratura non ha innalzato una diga. L’idea di abolire la Severino ne è una prova. E intanto condannati per reati di mafia ispirano le scelte di una classe dirigente che ha la pretesa di presentarsi come nuova.

Sulla questione amorale si ripropone il vecchio tema del rapporto fra etica e politica. Vecchio tema e sempre nuovo, perché non vi è questione morale in qualsiasi campo venga proposta che abbia mai trovato una soluzione definitiva.

Si parla abitualmente di un’etica dei rapporti economici, o, com’è accaduto spesso in questi anni, del mercato, di un’etica sessuale, di un’etica medica, di un’etica sportiva e via dicendo. Si tratta in tutte queste diverse sfere dell’attività umana sempre dello stesso problema: la distinzione fra ciò che è moralmente lecito da ciò che è moralmente illecito.

Il problema dei rapporti fra etica e politica è più grave. Ed ha senso soltanto se si è d’accordo nel ritenere che esista una morale e in linea di massima su alcuni precetti che la definiscono. L’etica tradizionale ha sempre distinto i doveri verso gli altri dai doveri verso sé stessi. Nel dibattito sul problema della morale in politica vengono in questione esclusivamente i doveri verso gli altri. Come racconta in questo numero L’Espresso, il ritorno di condannati per reati di mafia come Salvatore Cuffaro e Marcello Dell’Utri tradisce l’inadeguatezza di alcuni politici che non sono riusciti a far argine con ciò che è lecito da quello che è immorale. E non è servita nemmeno la delega che sempre più spesso in questi anni è stata data alla magistratura, per legittimare una classe dirigente che si voleva presentare come nuova. Sulla classe politica scrive Massimo Cacciari e sottolinea un passaggio: “Qui non si discute la fondatezza né il valore etico e civile della contestazione di un ceto politico che si ripiega ormai sulla conservazione di sé stesso: se è una parte dell’amministrazione dello Stato a condurla, questa non potrà mai, fisiologicamente, portare a quella riforma istituzionale che la natura della crisi imporrebbe”. Dopo Tangentopoli sarebbe dovuto partire un processo di rinnovamento costituente. Ma questa è rimasta la favola della seconda Repubblica.

E intanto ci avviamo anche verso il referendum del 12 giugno. Fra i quesiti che vengono posti non comprendo come si possa pensare di abolire l’intera legge Severino, che è stata la prima grande risposta alla corruzione. È la normativa introdotta nel 2012 come barriera all’illegalità nella pubblica amministrazione. Cancellarla completamente non mi sembra ragionevole. C’è un aspetto della legge su cui va fatta una riflessione e su cui sono state depositate proposte di modifica, e cioè la sospensione automatica dall’incarico di amministratore di chi è condannato con sentenza non in via definitiva. Ma se aboliamo integralmente la Severino, un condannato per reati gravi o gravissimi può restare in carica. Si possono fare miglioramenti, ma non stravolgendo tutto.

E una buona notizia arriva proprio dalla Camera che ha approvato a larga maggioranza la proposta di legge del deputato del Pd Paolo Siani con la quale mette fine al carcere per i bambini, figli di madri detenute.

Le avevamo chiamate le prigioni degli innocenti nella nostra copertina del 27 marzo scorso. Avevamo puntato l’attenzione sugli istituti di pena in cui vivono anche i piccoli con le loro mamme recluse. Una situazione che, come spiegava l’inchiesta di Pietro Mecarozzi, riguardava 16 bambini, costretti a passare i primi anni della loro vita dietro le sbarre per colpe che non hanno commesso. Come avevamo evidenziato allora, non è importante il numero dei piccoli costretti a stare dietro le sbarre, per noi è importante che nessuno di loro ci sia. In attesa dei passaggi al Senato e poi nuovamente alla Camera, si compie un ulteriore passo in quello che abbiamo sostenuto con il nostro lavoro: mai più bambini in carcere.