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di Glauco Giostra

Avvenire, 28 giugno 2024

I numeri che provengono dal pianeta carcere, anche a volersi fermare a quello dei suicidi, sono agghiaccianti. Ma sono tempi, questi, in cui gli orrori raccontati quotidianamente dai media hanno indotto ad alzare le difese dell’indifferenza per evitare di precipitare nello sconforto. Questi numeri, pur drammatici, sono diventati emotivamente neutri. Se almeno potessero gridare il dolore straziante e il senso di totale abbandono di chi ha deciso di farla finita, se potessero portarci il pianto sommesso della sua disperazione, se ci potessero contagiare la sua angoscia di non poter neppure salutare le poche persone al mondo che piangeranno la sua morte, se ci potessero far vedere i suoi occhi vuoti di futuro e di speranza mentre si toglie la vita - perché non ha più una sola ragione per protrarla - probabilmente ci soffermeremmo con desolazione infinita e con vergogna senza requie su questi numeri.

Allora, forse, coloro che possono fare qualcosa capirebbero che neppure un giorno in più di inerzia sarebbe giustificabile. E fare qualcosa in una situazione di così drammatica emergenza non può consistere nel progettare nuove carceri, nel prevedere ulteriori assunzioni, nell’immaginare trasferimenti di detenuti stranieri. La promessa del domani non può assolvere la colpevole inerzia dell’oggi. Se in un pericoloso tratto di strada si verifica un incidente gravissimo, prima di assicurare che sarà rivista la segnaletica, che verrà rafforzato il guardrail, che sarà imposta una riduzione del traffico, bisogna soccorrere chi, vittima dell’incidente, sta rischiando la vita.

Nell’attuale girone penitenziario ogni intervento in grado di rendere meno insopportabile la soffocante e degradante quotidianità carceraria potrebbe risultare prezioso al di là di ogni aspettativa. Ma non c’è dubbio che in questo momento il principale fattore dell’invivibilità detentiva è il sovraffollamento, moltiplicatore esponenziale di tutti i fattori di deprivazione della dignità, che ormai è tornato al livello di quello che poco più di dieci anni fece condannare il nostro Paese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante.

Non è più differibile (da tempo, per la verità) uno strumento di rapido decongestionamento. Un’amnistia e/o un indulto - strumenti ai quali sono stato contrario quando venivano usati come semplici, periodici provvedimenti di “sfioro” del “troppo pieno” penitenziario, non accompagnati da rimedi strutturali che impedissero il puntuale ripresentarsi dell’incivile fenomeno - potrebbero nella drammatica situazione penitenziaria rivelarsi provvidenziali. E sarebbe confortante vedere una volta tanto tutte le forze politiche convergere su soluzioni condivise, tanto più che nessuna di esse può dirsi del tutto esente da responsabilità.

Ma, essendo facilissimo immaginare gli allarmistici slogan (“Svuotacarceri, sicurezza a rischio”) con cui si boicotterebbe qualsiasi tentativo in tal senso, almeno si provveda secondo la proposta Giachetti, attualmente in esame (della ripetutamente annunciata iniziativa del ministro Nordio, parleremo quando ad essa il Governo darà disco verde e corsia di urgenza, come avvenne in occasione dell’improcrastinabile introduzione del reato di rave-party): aumento della riduzione di pena per i detenuti che con il loro positivo percorso ne sono già stati o ne saranno dichiarati meritevoli dalla magistratura di sorveglianza. L’atteggiamento negativo sinora espresso al riguardo, non solo dalle forze di maggioranza, non consente ottimismi. La deprimente spiegazione sarebbe che pure in tal caso (come, a maggior ragione, per amnistia e indulto) lo Stato si dimostrerebbe debole. Dunque, piuttosto che ammettere la necessità di porre rimedio ad un proprio errore, lo Stato preferisce che gli venga addebitata una delittuosa condotta omissiva: sì, perché ciò a cui assisteremo durante l’incipiente estate (da sempre stagione insopportabilmente feroce con i detenuti) sarà una raccapricciante progressione del numero di suicidi, che chiamare omicidi colposi non sarà purtroppo forzata metafora.

Ovviamente, qualora si riuscisse a intervenire con provvedimenti di emergenza - almeno per contenere questo insostenibile rosario di suicidi: veri j’accuse, che persone affidate allo Stato gli rivolgono non per averle private della libertà, ma della dignità di uomo - si dovrebbe immediatamente cominciare a ragionare su tutte le provvidenze normative, strutturali e di personale specializzato in grado di evitare il riproporsi di una situazione indegna di un Paese civile, dando preliminarmente risposta ad alcune ineludibili domande.

Come mai l’attuale popolazione penitenziaria supera le 60.000 unità nonostante un indice di criminalità decrescente (per restare ai reati più gravi: 300 omicidi all’anno), mentre trent’anni fa la popolazione penitenziaria era di circa 40.000 con una criminalità molto più preoccupante (1.000 omicidi all’anno)? Come mai si è ritenuto di ignorare i già pronti progetti di riforma penitenziaria di cui sono inutilmente ingombri i cassetti ministeriali? Come mai, per contro, gli unici, significativi propositi di intervento normativo in materia riguardano l’abolizione del delitto di tortura (per non privare “i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro”); l’introduzione del reato di rivolta carceraria (“a tutela dell’ordine pubblico negli istituti penitenziari”); il ridimensionamento in chiave securitaria della funzione rieducativa assegnata alla pena dall’articolo 27 della Carta (perché “l’art 27 della Costituzione è stato il grimaldello culturale di chi ha lentamente eroso la certezza della pena facendo leva su gargarismi garantistici”)? Non sappiamo se temere più il silenzio o le risposte.