sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Luigi Manconi e Lucrezia Fortuna

Il Dubbio, 19 aprile 2022

Riportiamo di seguito la prefazione, firmata da Luigi Manconi e Lucrezia Fortuna, al libro di Alessandro Capriccioli “Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere”. Il volume (anno 2022, 176 pagine, 15 €) è pubblicato dall’editore People per la collana “Storie”. Nel libro, la prefazione è accompagnata dal titolo “L’odore della galera”.

Del carcere, e della condizione di privazione della libertà, si è detto tutto o, comunque, molto, ma si è visto e sentito assai poco. Questo “Tre metri quadri. Quattro anni di vite in carcere” ci aiuta a guardarlo dall’interno, anche se non ne siamo prigionieri. Tuttavia, il prossimo libro che, ci auguriamo, Alessandro Capriccioli vorrà scrivere sul tema dovrà ovviare a un limite che noi prefatori irrispettosi immediatamente segnaliamo. Ovvero il fatto che in questa rappresentazione della galera così fisica e corporale, così anatomica e materiale, l’autore non racconta quale sia l’odore del carcere. Descrivere questo odore è impresa, anzitutto letteraria, assai ardua, ma possiamo dire che la tonalità olfattiva prevalente è definibile come acida.

Comprensibilmente: perché è il risultato di tutta una varietà infinita di olezzi, puzze, tanfi, fetori, miasmi e persino profumi che, non trovando mai sufficiente circolazione, ventilazione, cambiamenti d’aria, si coagulano in un unico effluvio penetrante e, nel fondo, sottilmente rancido. Questo libro è fatto proprio così: si trovano dentro il corpo dei custoditi, il corpo dei custodi e il corpo dell’edificio che li custodisce entrambi.

Ossia il carcere nella sua concretezza di costruzione destinata a contenere, trattenere e serrare. Alessandro Capriccioli attraversa questi spazi e incontra questa umanità, raccontandone innanzitutto la vita coatta; e, poi, ciò che le molte parole ascoltate esprimono, nel tentativo di comunicare all’esterno quanto, nonostante tutto, resista all’interno.

L’interno è, diciamolo, uno spazio generalmente orribile, soprattutto se osservato nella realtà materiale dell’organizzazione delle celle.

In una buona parte di esse è come se un architetto di interni, improvvisamente impazzito, avesse deciso di combinare insieme tutte le soluzioni di arredamento che le riviste patinate di settore illustrano e, così, in circa tre metri quadri si trovano, l’uno accanto all’altro, un tubo piantato nel muro da cui defluisce, a mo’ di doccia, un filo d’acqua e, immediatamente dopo, un muretto alto un metro e mezzo, al cui interno un water o un cesso alla turca assolvono ai bisogni fisiologici primari.

Poi, un altro muretto, e, a seguire, un lavabo destinato a faccia, mani e denti, pulizia di stoviglie e pentole, e quant’altro richieda l’utilizzo dell’acqua.

Ancora, un ripiano con sopra un fornelletto a gas, tipo camping e, all’altezza di due metri, un singolare accrocco di vetusto artigianato o di recente composizione realizzato con pezzi di risulta e molta fantasia dove si trovano piatti, barattoli del caffè e dello zucchero, detersivi e quant’altro. Questo spazio, così angusto, precario e disagevole, riassume appunto il living e i servizi, in una promiscuità obbligata, nella quale tutte le funzioni biologiche della persona si incrociano e si sovrappongono tra loro.

Poi, certo, il carcere non è tutto così, eppure sono ancora migliaia le celle, all’interno del nostro sistema penitenziario, che presentano una simile conformazione.

Nulla di più pertinente, di conseguenza, del ricorso al paradigma del bidet (l’intuizione è dell’avvocata Maria Brucale). Mettiamola così: come è possibile che, nell’anno di grazia 2022, nemmeno nelle sezioni femminili delle prigioni italiane vi sia traccia di quell’indispensabile apparecchio igienico? Se volessimo immaginare, noi liberi, che cosa sia davvero la reclusione, per bruttura e ignominia, pensiamo a una intera vita “senza bidet”. E, come si è detto, per una parte delle celle, con cesso “alla turca”, in genere esposto alla vista.

Ci si dirà, e ci è stato detto (dai più callidi globalisti da Touring Club tra i nostri critici): ma il bidet è una prerogativa quasi solo italiana e si può vivere benissimo senza. Abbiamo condotto una piccola indagine e abbiamo accertato che, in realtà, quell’apparecchio igienico è diffuso, per limitarci all’Europa, nei seguenti Paesi: Grecia, Albania, Spagna e Portogallo.

Ma, soprattutto, abbiamo immaginato una vita “senza bidet” nella promiscuità parossisticamente antigienica dell’ambiente prima descritto. La totale assenza di bidet, specialmente nelle celle delle sezioni femminili, esprime un notevole disprezzo per la salute e la dignità delle persone recluse, oltre a misurare il degrado generalizzato del sistema penitenziario nazionale.

Ma perché tanto scandalo? La rivendicazione di quell’apparecchio sembra richiamare, nei critici, un’immagine del carcere che costituisce una sorta di ossessione paranoide per le fantasie di vendetta che si scaricano su di esso.

In altre parole, la richiesta del bidet sembra connotare quel presunto “hotel a 5 stelle” fornito di “televisione a colori” contro cui si indirizzano tutti i livori, i rancori e le pulsioni più torve del giustizialismo nazionale (a partire dalle parole del dimenticato ministro della Giustizia, tra il 2001 e il 2006, Roberto Castelli).

Ecco un altro dettaglio interessante: se, invece che “a colori”, volessimo che in ogni cella vi fosse un più severo e afflittivo apparecchio in bianco e in nero (non più prodotto in alcun Paese al mondo), dovremmo aprire una nuova fabbrica di televisori destinati esclusivamente alla prigione. Ma torniamo al bidet. Sfugge agli ostili che un uomo - e tanto più una donna, per ragioni che forse è superfluo richiamare - può trovarsi a usare lo stesso rubinetto per bere, lavarsi viso, mani e ascelle, per il bucato, per riempire d’acqua una pentola e farla bollire e, infine, per pulirsi genitali e natiche. Se ne deduce che il “paradigma del bidet” è appropriato, eccome.

In ogni caso, in questo testo, spazi e misure assumono, fin dal titolo, un intenso significato. Da una parte, perché danno plasticità e tangibilità a un mondo che rischia costantemente di perdere la sua sostanza, reale e umana, sia quando viene agitato come oggetto di propaganda politica in chiave reazionaria, sia quando se ne parla, in perfetta buona fede e con i migliori propositi, per reclamare attenzione e tutele.

D’altra parte perché, nei loro, terribili, limiti strutturali, quegli spazi e quelle misure, o troppo angusti o troppo desolati - o entrambe le cose -, costituiscono la proiezione mutila e monca di bisogni schiacciati, compressi e repressi. Dalla precarietà del costruito e dal suo povero arredamento emerge, ancora più brutalmente, il contrasto con la sensazione di una insensata eternità che suggerisce sempre l’espiazione della pena. La provvisorietà delle condizioni di vita viene accentuata dall’interminabilità della reclusione - quand’anche fosse di appena pochi giorni - e proprio perché la dimensione detentiva sembra sempre oscillare tra stato di sospensione (il limbo come veniva disegnato dal catechismo della Chiesa cattolica) e stato di degrado: la “discarica sociale” evocata da Don Luigi Ciotti.

In proposito, si può utilmente richiamare quello che, nel diritto civile, è il contratto di deposito. In virtù di esso, una parte riceve dall’altra una cosa, con l’obbligo di custodirla e restituirla. Chi la riceve non può servirsene, né disporne, la detiene nell’interesse del depositante: in questo caso la società tutta.

Senza la dovuta diligenza e senza impegno attivo da parte del depositario (il carcere), quest’ultimo non potrà adempiere la propria obbligazione. Ebbene, è chiaro che il carcere risulta in genere inadempiente, fallendo due volte: la permanenza in quel deposito si rivela da un lato insensata, priva di efficacia educativa, morale e sociale, e dall’altro suscettibile di produrre gravissimi danni, talvolta irreversibili. L’attenzione per i danni, contenuta in questo libro, ci aiuta a comprendere la centralità e la crucialità di alcune “cose” qui trattate con tanta precisione e tanta ampiezza: sesso, amore, salute mentale, integrità fisica ma anche cibo, acqua calda e servizi igienici. Nozioni elementari e familiari. Eppure così trascurate - fin quasi alla impronunciabilità -, quando riferite alla realtà carceraria. Di tale, insopportabile, realtà, come si è detto, in questo libro manca solo l’odore. Proviamo a immaginarlo e questo, forse, ci aiuterà a pensare.