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di Rosella Redaelli

Corriere della Sera, 25 gennaio 2024

Capì che sarebbe diventato avvocato nel 1946. Raffaele Della Valle aveva 7 anni e viveva in un appartamento all’interno del Tribunale di Monza dove il padre era magistrato. “Giocavo sulla terrazza e mi fermavo ad ascoltare le arringhe”. L’avvocato che difese Enzo Tortora festeggia sessant’anni di professione e ripercorre quel processo nel libro “Quando l’Italia perse la faccia. L’orrore giudiziario che travolse Enzo Tortora”. Lo presenta a Monza giovedì sera alle 19 in un aperitivo letterario al Centro di Spalto Isolino a favore della onlus Associazione Sissi.

Perché un libro, oltre 40 anni dopo?

“Per me ha una valenza sentimentale. Shakespeare diceva che il ricordo di uno che se ne va dura il rintocco della campana che lo accompagna. Questo non vale per tutti. Per Enzo Tortora io sento ancora quel rintocco, lo sento per la nostalgia di un amico, ho nelle orecchie la sua voce al telefono, alle 4,40 del mattino di quel 17 giugno 1983. Era la voce di un uomo che sta sprofondando: “Mi devi salvare, mi stanno arrestando”. Ho capito che era arrivato il momento di tirare fuori tutta la documentazione del processo, ho scritto a mano come faccio da sempre, rispondendo alle domande del giornalista Francesco Kostner. In tutte le presentazioni di questo libro sento il calore e l’affetto che gli italiani hanno ancora per Enzo Tortora”.

Come vi eravate conosciuti?

“Eravamo amici da tempo, eravamo stati eletti entrambi nel consiglio nazionale del Partito Liberale. Era un uomo di una cultura enorme, malvisto da molti colleghi. E condividevamo la passione per i problemi giuridici…”.

Un caso Tortora potrebbe succedere ancora?

“Sì perché è un problema di uomini, non di leggi. Se manca la cultura giuridica della presunzione di non colpevolezza, se non sai che un indizio per essere tale deve essere concreto e riscontrabile, se non hai la dote più grande per un magistrato che è l’umiltà, puoi creare i presupposti per un nuovo caso Tortora”.

Il momento più buio?

“L’estate del 1983 era torrida, il 2 agosto Milano era deserta. Mi sentivo solo, inviso ai colleghi. Insomma, avevo le gomme a terra. Non so cosa mi spinse, dopo un impegno a Milano, ad andare nello studio di Enzo Biagi. Non lo conoscevo. Fu lui ad aprirmi la porta, parlammo a lungo e il 4 agosto pubblicò una lettera aperta al Presidente della Repubblica. Leggere le sue parole fu un efficace propellente. Non ero più solo”.

Una fotografia la ritrae in lacrime dopo la sentenza di assoluzione...

“Sono un passionale, sposo completamente la causa. In quel momento hanno assolto anche me. Ho provato la stessa cosa in tempi più recenti dopo l’assoluzione di Vitalij Markiv, il soldato ucraino condannato in primo grado per la morte del giornalista Andrea Rocchelli. Per lui ho vissuto due anni di angoscia per una sentenza di condanna profondamente ingiusta. Per trovare le prove della sua innocenza sono partito per il Donbass. Abbiamo provato che era impossibile che avesse potuto sparare da quella distanza verso il gruppo di giornalisti”.

Lei è stato protagonista di un altro processo mediatico, quello alla modella Terry Broome che aveva ucciso il playboy Francesco D’Alessio. Era il 26 giugno 1984.

“In quel caso c’era una confessione, ma anche un contesto e bisognava lavorare perché la pena fosse adeguata alle circostanze. Ricordo che feci un’arringa emotivamente coinvolgente, l’aula era gremita di gente e scoppiò un applauso scrosciante”.

Ha affiancato all’attività di avvocato la passione politica. Tredici anni in consiglio comunale a Monza nelle file del Partito liberale, poi nel 1994, fu tra i fondatori di Forza Italia. Come andò?

“Mi chiamò Silvio Berlusconi. Era l’8 dicembre 1993, mi recai a Villa San Martino. Con me c’erano Biondi, Confalonieri, Dell’Utri, Urbani. Aveva molta deferenza nei miei confronti, mi propose di candidarmi a Monza. Nel 1994 venni eletto all’unanimità capogruppo alla Camera, poi vicepresidente con 596 voti. Mi votò anche la sinistra”.

Che ricordo ha di Berlusconi?

“Ho avuto grandi conflitti con lui. Era abituato a guidare le aziende, molto accentratore, abituato a dirigere, più recalcitrante ad ascoltare. Io non ero nel cerchio magico. Era un uomo cortese, mi propose di candidarmi di nuovo, ma rifiutai”.

Anche lei è molto appassionato di calcio...

“Io non sono tifoso, sono malato del Monza. Seguivo la squadra quando eravamo in C2, ancora adesso se gioca il venerdì sera, e perde, mi rovino il fine settimana. Per me dovrebbe giocare solo la domenica sera”.

È mai stato tentato di lasciare Monza per trasferirsi a Milano?

“Io amo questa dimensione provinciale, Monza è una città in cui si vive bene, amo passeggiare in centro lungo il Lambro. Vorrei solo più decoro urbano, i fiori alle finestre nell’isola pedonale dovrebbero essere obbligatori”.