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di Stefano Iannaccone e Carmine Gazzanni

Verità & Affari, 3 luglio 2022

La piattaforma nazionale per raccogliere le firme digitali, utili a promuovere un referendum, non c’è ancora. La promessa del ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, Vittorio Colao, è scaduta ormai da sei mesi.

Il Garante della privacy e del ministero della Giustizia hanno infatti bocciato, qualche settimana fa, la bozza predisposta dagli uffici di Palazzo Chigi. L’Authority, che controlla la corretta gestione dei dati personali, aveva evidenziato “carenze assai significative”, perché non c’era “una adeguata valutazione degli specifici rischi per i diritti e le libertà costituzionali degli interessati”.

Osservazioni molto severe, che hanno causato una riscrittura del testo del dipartimento affidato all’ex manager. Così, all’orizzonte, non si scorge ancora una nuova data per il rilascio della piattaforma che dovrebbe incentivare la partecipazione. La stima informale, nella più ottimistica delle ipotesi, è di qualche altra settimana, ma potrebbe slittare tutto in autunno.

Accumulando ulteriore ritardo. Eppure già nell’estate scorsa, sull’onda della nuova norma che dava la possibilità di raccogliere le firme in formato digitale per richiedere referendum, Colao aveva assunto un solenne impegno: “Entro l’1 gennaio 2022, come previsto dalla legge, verrà sviluppata, testata e rilasciata una piattaforma sicura e integrata con l’anagrafe nazionale della popolazione residente”.

Lo strumento avrebbe permesso di “sottoscrivere le proposte referendarie, previo accesso remoto sicuro mediante Spid o Cie, con la contestuale validazione temporale delle sottoscrizioni”. La scadenza è stata ampiamente oltrepassata. Attualmente le firme digitali possono essere raccolte con il ricorso a un’infrastruttura privata e con conseguenti costi per chiunque voglia portare avanti una campagna per indire un referendum. Solo per mettere in moto l’iter occorrono 2mila euro.

Per la certificazione di ogni sottoscrizione, secondo quanto apprende Verità & Affari, bisogna poi spendere circa un euro e mezzo. Un investimento niente male. Basti pensare che per depositare in Parlamento una legge di iniziativa popolare servono sono necessarie 50mila firme.

L’esborso è di circa 75mila. Per i referendum il costo è ancora più significativo: è necessario raggiungere un minimo di 500mila sottoscrizioni, più una soglia di sicurezza minima di altri aderenti. Ne sanno qualcosa Fratelli d’Italia, che, con Giorgia Meloni capofila, ha avviato una campagna per una consultazione sulla riforma della Costituzione in senso presidenziale, e Possibile, il partito fondato da Giuseppe Civati, che è tuttora impegnato a raccogliere firme per una legge di iniziativa popolare sul salario minimo.

La questione è stata denunciata con un’interrogazione alla Camera dal deputato di +Europa, Riccardo Magi. “Credo che dobbiamo fare davvero di tutto per evitare che accada quanto spesso avviene nel nostro Paese nei tentativi di digitalizzazione e di innovazione tecnologica “, sottolinea il deputato. Quella solita tendenza, secondo cui per ragioni burocratiche, una “riforma tanto attesa e che sarebbe risolutiva, non vede la luce”. Una prospettiva che il governo, almeno nelle intenzioni, vuole scongiurare. “Abbiamo recepito le osservazioni e predisposto una versione aggiornata dello schema di decreto”, ha garantito Colao. “Siamo in procinto” ha aggiunto “di inviare per opportuna conoscenza al garante e al ministero della Giustizia, con la richiesta di concerto, unitamente a un manuale operativo, contenente già le specifiche tecniche di funzionamento”.