sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Giovanni Bianconi

Corriere della Sera, 8 giugno 2022

Se passasse il sì, si arriverebbe all’impossibilità di passare da una funzione all’altra nello stesso ordine giudiziario. I promotori del referendum numero 3 (scheda gialla) aspirano alla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici perché solo così - affermano - si può realizzare la vera parità tra accusa e difesa davanti a un giudice realmente “terzo”: due magistrature diverse, senza la comune appartenenza a un unico ordine giudiziario e con due organi di governo autonomo differenti al posto dell’attuale Consiglio superiore della magistratura. Ma la Costituzione prevede un unico Csm e, all’articolo 107, stabilisce che “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.

Così, in attesa di una difficile riforma costituzionale, questo referendum chiede di abrogare una serie di norme ritagliate da cinque diverse leggi con l’obiettivo di impedire il passaggio da una funzione all’altra. Arrivando alla situazione ibrida di carriere separate di fatto all’interno dello stesso ordine giudiziario. Ma c’è pure chi sostiene che la complessità del quesito (certamente il meno comprensibile all’elettore, composto da 1.067 parole) arriverebbe al paradossale risultato, in caso di vittoria dei sì, di abolire tutte le barriere che attualmente limitano le possibilità di passare da una funzione all’altra, liberalizzando una transizione senza regole.

Nel corso degli anni si sono sommate sempre maggiori restrizioni per un pm che volesse diventare giudice e viceversa: bisogna cambiare regione e non si può superare un massimo di quattro passaggi. Un tetto che la riforma approvata dalla Camera e ora al vaglio del Senato ha ulteriormente ridotto a uno (oltre la scelta a inizio carriera), ma il referendum vuole arrivare a zero.

Chi è contrario alla separazione delle carriere (ma anche così netta delle funzioni) ritiene che la doppia esperienza sia necessaria per poter svolgere al meglio sia il ruolo di pm che di giudice; inoltre creare una categoria di pubblici ministeri sganciati dal corpo dei giudici (qualcuno vorrebbe chiamarli “avvocati della polizia”) finirebbe per portarli inevitabilmente sotto la sfera d’influenza del governo, facendone perdere l’autonomia a sua volta legata al principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito anch’esso dalla Costituzione. Tuttavia la separazione resta un punto centrale e pressoché irrinunciabile delle rivendicazioni degli avvocati, che ne fanno una questione culturale prima ancora che pratica: finché non ci sarà un giudice totalmente separato dal pm non si potrà realizzare il “giusto processo” introdotto in Costituzione nel 1999.

Comunque la si pensi, e al di là del fatto che in ogni caso l’esito del referendum non impedirebbe l’approvazione della riforma all’esame del Parlamento, resta che da oltre un decennio i passaggi da una funzione all’altra sono diventati del tutto marginali. Mentre un tempo i pm che diventavano giudici oscillavano tra il 6 e il 9 per cento all’anno, e il cambiamento inverso tra il 10 e il 17 per cento, dal 2011 in poi i passaggi da funzioni requirenti a giudicanti sono crollati allo 0,2 per cento, mentre quelli inversi si attestano sull’1 per cento. Come dire che una pressoché definitiva separazione delle funzioni s’è già realizzata nei fatti.