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di Andrea Piani

Left, 10 giugno 2022

Da trent’anni il Parlamento è incapace di assumersi le proprie responsabilità rispetto alla necessità di cambiare il sistema giudiziario. Ora la parola spetta ai cittadini.

Il Partito Radicale da sempre lotta per l’affermazione dello Stato di diritto e del rispetto del dettato costituzionale. La giustizia è in quest’ottica la più importante delle nostre battaglie: solamente attraverso un sistema giudiziario adeguato il cittadino può veder ripristinati i propri diritti quando questi vengono violati. Uno Stato che non riesce a far funzionare la propria giustizia non riesce a tutelare i propri cittadini. Sicuramente i cittadini italiani non si sentono tutelati, dato che solamente il 32% dichiara di avere fiducia nella magistratura.

Questo dato non stupisce: si consideri che i casi di ingiusta detenzione in Italia negli ultimi 30 anni sono stati più di 30mila e che sono costati complessivamente allo Stato (anzi, ai cittadini) fra indennizzi e risarcimenti circa 900 milioni di curo. Si consideri che i magistrati vengono valutati solamente dai loro colleghi e che il 99% di essi riceve una valutazione positiva.

Si consideri che le correnti delle toghe sono diventate dei partiti che si spartiscono le cariche di potere a svantaggio dei magistrati non affiliati ad una corrente. Si consideri che non c’è una distinzione delle carriere fra chi accusa e chi giudica e che si è così creato uno spirito corporativo fra pubblici ministeri e giudici. Si consideri che il decreto L’autore Severino, che avrebbe dovuto limitare la corruzione, in realtà, nella Andrea Piani è consigliere stragrande maggioranza dei casi, ha generale del Partito comportato la perdita della carica radicale per una persona che poi è risultata innocente, con grave danno per la democrazia. Di questa situazione la magistratura è colpevole e ancor più colpevole è il Parlamento che da trent’anni si rivela incapace di assumersi le proprie responsabilità.

Da decenni ormai ascoltiamo farisaiche promesse di riforma che puntualmente vengono tradite. I progetti al momento oggetto di esame in Parlamento, pur contenendo alcuni aspetti positivi, non sono sufficienti a cambiare il sistema giudiziario. Ora finalmente la parola spetta ai cittadini, che avranno la possibilità il 12 giugno di superare l’immobilismo parlamentare e di riformare la giustizia. Lo strumento referendario serve proprio a questo: a dare ai rappresentati il potere di correggere i rappresentanti.

Con cinque Sì avremo la possibilità di limitare gli abusi della custodia cautelare, che rimarrà comunque in vigore per i reati gravi; di avere magistrati valutati in maniera più equa anche da avvocati e professori universitari di diritto; di limitare lo strapotere delle correnti al Consiglio superiore della magistratura, attraverso la cancellazione dell’obbligo di raccogliere dalle 25 alle 50 firme per presentare la propria candidatura, permettendo così anche ai magistrati non affiliati ad una corrente di candidarsi a questo organo; di separare nettamente chi giudica da chi accusa; di cancellare l’automatismo fra condanna di primo grado e decadenza dalla carica per un amministratore locale e di restituire al giudice il compito di decidere di volta in volta, in caso di condanna, se è necessaria l’interdizione dai pubblici uffici.

La Lega si è dimostrato l’unico partito interessato ad un confronto con il Partito radicale sul tema della giustizia. Come da prassi radicale, non rifiutiamo il dialogo con nessuno, neanche con chi potrebbe apparire più distante da noi, anzi riteniamo che l’incontro fra diversità possa arricchire, purché non porti al compromesso ma alla sintesi. Dalla interlocuzione fra Partito Radicale e Lega sono nati questi referendum che non sono né di destra né di sinistra, né garantisti né giustizialisti, sono invece uno strumento di democrazia diretta che va nella direzione della piena affermazione dello Stato di diritto, della piena applicazione della Costituzione scritta e della difesa dei diritti del cittadino.

Diritti che vengono negati anche sul piano dell’informazione dato che i tg Rai hanno dedicato fino ad ora lo 0,3% del loro spazio ai quesiti referendari. Si sta calpestando così non il diritto dei promotori dei referendum ma il diritto dei cittadini a conoscere. Ad oggi circa il 50% dei cittadini non sa nemmeno che saremo chiamati ad esprimerci il 12 giugno. Abbiamo cercato di porre rimedio a questa censura attraverso dichiarazioni e manifestazioni pubbliche che sono rimaste inascoltate.

Siamo stati costretti a denunciare la grave mancanza di informazione all’Agcom, la quale ha espresso un richiamo formale nei confronti della Rai e di tutti i fornitori di servizi audiovisivi e radiofonici affinché garantiscano una adeguata copertura informativa ai temi referendari.

Neanche questa misura sembra sufficiente a placare la violenza della censura, alla quale il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, il tesoriere del Partito radicale Irene Testa e centinaia di cittadini hanno scelto di contrapporre la nonviolenza del digiuno per nutrire la speranza. La speranza non nel vincere ma nel convincere. Convincere le istituzioni e i media a rispettare i diritti e la legalità.