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di Serena Arbizzi

Gazzetta di Reggio, 15 aprile 2023

“Mi ritengo uno sconfitto, sul piano personale, perché mentre pensavo di perseguire un ideale di giustizia, mi sono accorto che negavo gli ideali di pace e fratellanza: creando i nemici in una logica di guerra, disumanizzi te stesso. Il 41 bis oggi è quello che era per noi l’articolo 90. Sono finito nelle carceri di massima sicurezza e nonostante ciò non è che il mio livello di belligeranza si fosse abbassato. Più il carcere era duro, più mi faceva indurire. La violenza crea solo violenza: non esiste quella giusta e quella sbagliata”.

Franco Bonisoli è partito da Reggio Emilia, quando aveva 19 anni - nel 1974 - per entrare nelle Brigate Rosse, di cui diventa componente della direzione strategica e del comitato esecutivo. Nel 1977 partecipò al ferimento di Indro Montanelli e l’anno successivo al sequestro di Aldo Moro.

Proprio nella provincia in cui nacquero le Brigate Rosse, per la prima volta Bonisoli e la figlia dello statista democristiano, Agnese, si sono seduti allo stesso tavolo in occasione dell’incontro “Condivisione di vite”, alla chiesa di San Luigi Gonzaga di via Torricelli, per un’iniziativa organizzata dal centro di giustizia riparativa Anfora con la parrocchia e la cooperativa di solidarietà sociale L’Ovile.

Oltre 300 persone hanno affollato il luogo di culto. Tra queste, erano presenti i giudici del tribunale di Reggio Emilia, Matteo Gambarati e Silvia Guareschi. L’incontro ha richiamato un vasto numero di giovani, tra i quali gruppi di scout. In prima fila era seduto - prima di partecipare con un intervento al termine delle testimonianze - l’ex brigatista Loris Tonino Paroli.

“Durante la messa è stata ripetuta la parola “fratelli” parola che ha avuto un peso fondamentale nella mia vita - esordisce Bonisoli -. Ho lasciato Reggio Emilia per la lotta armata in una grande città, dove doveva scoppiare la rivoluzione secondo noi. Fare questa scelta ha implicato salutare la famiglia, la ragazza, strappare i documenti, prenderne dei falsi e diventare militante a tempo pieno. Sapevi di poter morire sul campo di battaglia. Ho vissuto quattro anni clandestino, ricercato da tutte le polizie, tra ferimenti, uccisioni di chi non ritenevamo persone, ma nemici. Secondo la logica di guerra, li disumanizzavamo. Andavamo in questa direzione senza accorgerci che mentre disumanizzi la persona che hai di fronte riduci la tua umanità. Come vediamo oggi nella guerra nel nord Europa”.

“Dopo quattro anni sono stato arrestato e sono finito nelle carceri di massima sicurezza che manifestava la forma di repressione più dura, dove ci organizzavamo per continuare a combattere la guerra contro lo Stato - prosegue l’ex br. Ho avuto quattro condanne all’ergastolo e 105 anni di pena dai processi. Nel frattempo, nelle carceri circolava l’esplosivo con cui si volevano far saltare i muri per evadere. Se metti dentro le persone e butti via la chiave si acuisce solo la conflittualità. Poi qualcosa è cambiato: ero alle Vallette, a Torino. Noi eravamo molto belligeranti, ma il nuovo direttore, Giuseppe Suraci, fece una cosa stravolgente: invece di chiudere i canali della convivenza aprì la comunicazione. Ci disse che la situazione era difficile e che era necessario istituire una commissione fra detenuti per comunicare i problemi. Così iniziammo a dialogare. Fu favorito il rapporto con le nostre compagne e con l’esterno. Il livello di belligeranza si spense”.

A 28 anni, per Bonisoli, arriva la svolta: “La mia famiglia aveva sofferto terribilmente per le mie scelte. La rivoluzione si dimostrava sempre più fallimentare e le persone cui avevamo fatto del male, quei nemici, iniziavano a diventare persone. Aprii cuore e mente. Pensai di farla finita. Ero nel carcere di Nuoro. Parlai con Alberto Franceschini (ex br reggiano, ndr) che propose uno sciopero della fame al quale aderì anche un altro reggiano, Ognibene e altri. Il cappellano del carcere fu protagonista di un’azione forte che ruppe il muro di silenzio. Disse che si rifiutava di celebrare la messa di Natale se i suoi fratelli stavano morendo in carcere. A Nuoro arrivarono tutti i politici, mi ricordo il giorno in cui mi trovai Pannella sulla branda. Venne anche l’ex sindaco Renzo Bonazzi di Reggio. E decisero di eliminare l’articolo 90. Da lì è stato come uscire dall’inferno, non a rimirare le stelle, ma almeno il purgatorio. Le condanne c’erano ma si poteva creare una risalita. Credo di essere fortunato, perché ne sono uscito vivo e sono libero. Non posso votare ma questo mi ha risolto un sacco di problemi”, aggiunge l’ex terrorista.

Una volta scontata la pena, Bonisoli afferma che era rimasto il problema di coscienza con le persone alle quali aveva fatto danni irreparabili. Determinante, per la nuova svolta verso il recupero di un’umanità, inizialmente negata e poi inseguita un passo alla volta, l’incontro con padre Guido Bertagna, gesuita e mediatore, che da tempo si occupa di giustizia riparativa.

“Padre Guido - rimarca l’ex brigatista - una volta mi ha mostrato una sedia dicendo: “Vedi, se lì si sedesse uno come te e alcuni parenti delle vittime cambierebbero tante cose. Abbiamo provato questo percorso e ho continuato a vivere con un grande senso di colpa che mi incatenava. Poi abbiamo cercato di trasformarlo in senso di responsabilità, attraversando insieme i nostri inferni: questo è stato liberatorio. Il dialogo è la vera rivoluzione”.

Numerose le sollecitazioni riferite ai fatti di attualità. “Bisogna uscire dalle categorie con cui si etichettano i detenuti - aggiunge Bonisoli interpellato su Cospito e il 41 bis. Sono stato, di recente, in un carcere di massima sicurezza, a Parma e non si possono attribuire delle etichette. Usciamo, quindi, da queste categorie e poniamo più attenzione sul carcere e avere più coraggio. Noi eravamo considerati terroristi, ma c’è chi ha avuto il coraggio di chiamarci fratelli rompendo gli schemi e ciò ha prodotto cose buone. Tanti giovani, oggi, stanno cercando di avvicinarsi al concetto di giustizia riparativa. Noi mettiamo a disposizione la nostra esperienza”.