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di Luca Casarini

L’Unità, 29 giugno 2023

Il Tribunale di Roma ordina al governo “l’immediato ingresso nel territorio dello Stato italiano” di un migrante respinto in Libia che è riuscito a fare ricorso. L’ambasciata deve subito dargli un visto. “Il Giudice designato: accoglie il ricorso e, per l’effetto, dichiara il diritto del Sig.Khalid (lo chiameremo così qui, per motivi di sicurezza) di presentare domanda di protezione internazionale in Italia e ordina alle amministrazioni competenti di emanare tutti gli atti ritenuti necessari a consentire il suo immediato ingresso nel territorio dello Stato italiano”. Si chiude così l’Ordinanza del Tribunale di Roma, recapitata al governo italiano, al Ministero degli Esteri di Tajani e alla nostra ambasciata a Tripoli.

È una sentenza storica: il governo italiano è obbligato a fornire un visto umanitario alla persona, che è un giovane sudanese più volte detenuto e torturato in Libia, e lui ha il diritto di fare ingresso in Italia, dalla Libia, e di chiedere asilo. Non solo. “emanare tutti gli atti necessari”, in assenza di collegamenti accessibili e sicuri ai quali la persona possa accedere, vuol dire che devono andarlo a prendere. Perché lui, il giovane Khalid, è ancora lì per colpa del nostro stato, ed è a Tripoli, dopo un respingimento operato in mare dalla sedicente “guardia costiera libica”, con la collaborazione accertata dell’Italia. È la prima volta che accade.

È la prima volta che accade, e questo giovane che ha vinto la sua battaglia legale contro l’Avvocatura dello Stato, non ha cambiato, speriamo, solo la sua di vita, ma potrebbe aver impresso un cambio di traiettoria anche alla storia contemporanea del Mediterraneo e della scia di sangue, privazioni, violazioni delle Convenzioni Internazionali e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, con cui l’hanno inquinato i governi europei, Italia in testa, nella guerra sporca contro i migranti.

Ma partiamo dall’inizio. Il giovane rifugiato sudanese è finito in Libia dopo essere stato costretto alla fuga dal posto in cui era nato e cresciuto, il Darfur nel sud Sudan. Finisce il Libia, perché certo in quelle condizioni non vi è modo di decidere le destinazioni o i paesi da evitare. Profughi significa questo: cercare il modo di sopravvivere e di giungere il più vicino possibile all’Europa, che sta al di là del mare. Nel 2017 Khalid riesce a partire con un barcone da quell’inferno dove era finito. Lo cattura in mare la milizia, quella che allora cominciava a muovere i suoi primi passi da “guardia costiera”, finanziata a tal scopo dall’allora governo Gentiloni e “istruita” dall’allora Ministro degli Interni Marco Minniti.

Lo catturano in mare, lo riportano in un centro di detenzione, insieme a molti altri come lui. Khalid non si dà per vinto: riesce a reggere le botte e la fame, e alla prima occasione ci riprova, un anno dopo, il 30 giugno del 2018. Partono in 3 gommoni almeno, da cento persone l’uno. Ci si saluta lì, in spiaggia, di notte, anche tra fratelli o madri, o padri, figli se capita che ti abbiano diviso. Perdersi in mare a bordo di quelle zattere con i tubolari lunghi sette metri, è facile. Ritrovarsi, vivi, è la speranza più grande. Dopo una notte intera passata in mare, il primo luglio dal gommone sul quale era anche Khalid, qualcuno riesce a contattare la Guardia Costiera Italiana.

La situazione è ormai al limite, sta entrando acqua e i tubolari stanno cedendo. Che fanno le autorità italiane, difronte a questa richiesta di soccorso? Quello che fanno anche ora, secondo una prassi illegale ma consolidata: avvisano i carcerieri che le vittime sono riuscite a fuggire, dandogli le indicazioni precise per una cattura rapida. E qui è il primo grande nodo del sistema Libia, messo in piedi dalle menti raffinate che lavorano per i diversi governi italiani che hanno sin qui operato: le autorità italiane sanno perfettamente che i libici non fanno soccorsi, ma catture e deportazioni. Vietate dalla Convenzione di Ginevra.

Il soccorso in mare non è la priorità per i funzionari alle dipendenze del Ministero dei Trasporti e degli Interni italiani, nonostante le chiamate provengano da persone che rischiano il naufragio. La priorità è l’operazione di polizia, come a Cutro così in alto mare, volta ad impedire l’arrivo di migranti, perché coloro che chiamano da acque internazionali, se continuassero a navigare, se per caso miracolosamente riuscissero a restare vivi e liberi dalle catene che li tengono in Libia, arriverebbero nella “zona Sar” di responsabilità italiana, poco sotto Lampedusa, e lì sarebbe più difficile respingerli. Le strade dunque sono almeno due: o si spetta che sia il mare, il vento o la sete a risolvere, anzi, eliminare il problema, oppure si chiamano i libici, pagati profumatamente per fare da polizia di frontiera anche con scorribande in acque internazionali. Il “problema”, naturalmente, sono donne, uomini e bambini, che per le nostre autorità non sono degni di godere di alcun diritto umano. Eppure muoiono da umani, come tutti, quando affogano.

Khalid viene dunque catturato il primo luglio del 2018 dalla motovedetta classe “Bigliani” fornita dall’Italia ai miliziani libici e rinominata “Zuwarah”, grazie alle indicazioni di Roma. La Zuwarah, è uno dei primi assetti navali che ha cominciato ad operare come polizia di frontiera nelle acque del Mar Mediterraneo. Famosa è la foto nella quale si vede uno dei criminali segnalati dalle Nazioni Unite, “Bija”, in posa tronfio in coperta, circondato da altri banditi armati. Vanno a caccia, in mare, e l’Hending Game è reso possibile dall’alto, dai droni e aerei di Frontex, e spesso da terra, grazie alle indicazioni del Mrcc di Roma. Nei dintorni c’è la nave “Duilio” della Marina Militare Italiana, allertata anch’essa ma con la consegna a non intervenire perche’ “ci pensano i libici”. Invia il suo elicottero, “EliDuilio” sopra il gommone.

Passano le ore prima che la Zuwarah arrivi, e nel frattempo il gommone cede. Muoiono così, nell’attesa dei libici, ottanta persone. Khalid è tra i 18 superstiti sbattuti a bordo della motovedetta. La Nave Duilio, Marina Militare Italiana, ben più attrezzata e idonea del mezzo libico dato in gestione a dei macellai, non è intervenuta. Perché? Per il semplice motivo che se quelle persone, almeno quelle rimaste vive, fossero salite a bordo di un mezzo italiano, nessuno avrebbe più potuto portarle indietro. La Zuwarah continua la sua caccia in mare, nonostante abbia a bordo persone che hanno appena visto morire davanti ai loro occhi fratelli, figli, madri.

Ma la compassione, l’umana pietà, non è contemplata nel patto “Italia Libia”. Alla fine i carcerieri riescono a catturare 262 fuggiaschi. Sono pronti a riportarli all’inferno. Ma la motovedetta, stracarica di gente disperata, si rompe, va in avaria. E qui questa triste ma incredibile storia ci offre un altro spunto importante per capire il “sistema Libia” che affligge il Mediterraneo. Interviene una nave italiana, un mercantile “supply vessel” che si chiama “Asso Ventinove” e fa parte della flotta della “Augusta Offshore” che opera a supporto di sicurezza attorno alla piattaforma di Sabratha. Ma chi dà ordine alla nave mercantile italiana di andare a soccorrere i naufraghi e l’equipaggio della “Zuwarah”? La comunicazione parte dalla nave militare “Caprera”, che è in rada al porto di Tripoli, banchina “Abu Sitta”.

È stabile quella nave, mandata dal governo con approvazione del Parlamento, nell’ambito dell’operazione “Nauras”, che formalmente prevede il “solo supporto meccanico e logistico” per la manutenzione delle motovedette fornite alla cosidetta “guardia costiera libica” dall’Italia. Ma la “Caprera” invece, è il vero centro di coordinamento dei libici, che non hanno nemmeno uno straccio di ufficio. La “Asso Ventinove” effettua il trasbordo, si carica guardie e ricercati, e fa rotta su Tripoli, con motovedetta vuota a rimorchio. A Khalid, che chiede spaventato che cosa sarebbe stato di loro, un miliziano libico risponde con un mezzo sorriso “vi portiamo in Italia, tranquilli”.

La nave italiana si ferma invece davanti al porto di Tripoli, e Khalid viene preso con tutti gli altri, fatto sbarcare e internato nel lager di Tariq Al Matar. Subisce per tre mesi torture e violenze di ogni tipo, per poi essere destinato come schiavo ai lavori forzati. Khalid è sopravissuto alle tante volte che la morte gli ha fatto visita. Oggi vive nei dintorni di Tripoli, in balia della prossima cattura, ed è certificato da Unhcr come “person of concern”, cioè persona che deve ricevere aiuto. La sua storia, di un testimone ancora vivo di uno dei tanti respingimenti illegali e disumani, operati con la complicità delle autorità italiane ed europee, si è trasformata nell’atto politico di un ricorso giudiziario alla magistratura.

Questo grazie al lavoro instancabile di decine di attiviste ed attivisti del JLP Project, che fa parte dei “progetti speciali” di Mediterranea Saving Humans. Sarita Fratini, l’anima di questa che è innanzitutto una difficile ma preziosa attività di ricerca delle persone inghiottite dall’inferno libico, e di tessitura di relazioni, ascolto, cura, è molto chiara:” Ora l’Ambasciata Italiana a Tripoli deve dare subito il visto a Khalid. Dobbiamo tirarlo fuori da li, lo dice una sentenza. Possibile che noi, accusati continuamente dal governo di illegalità, dobbiamo denunciare pubblicamente Ministri e ambasciatori italiani che non vogliono rispettare la legge?”.

L’Ordinanza, che è molto articolata, obbliga il Ministro Antonio Tajani, ad evacuare immediatamente Khalid dalla Libia. Ad andare a prenderlo e a portarlo in Italia. Dice chiaramente una sentenza che fa giurisprudenza, che quello fu un respingimento vietato dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e richiedenti asilo, che la Libia non è un luogo sicuro e quindi nessuno, nemmeno i libici, può deportare persone lì. Si scrive, nero su bianco, che chi coordina o supporta la cosiddetta “guardia costiera libica” commette un grave crimine. E come la mettiamo adesso, con motovedette regalate, milioni di euro elargiti per fare questo immondo lavoro? Ma soprattutto, cara Presidente del Consiglio, va a prenderlo lei Khalid? O ci manda Salvini?