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di Vittorio Manes

Il Riformista, 1 aprile 2024

Sono ancora molto, troppo diffuse, applicazioni della legge penale - con le gravose responsabilità che ne discendono - che appaiono più o meno condizionate da una sorta di “responsabilità da posizione”, poco sensibili alla garanzia fondamentale per cui la responsabilità penale è personale e colpevole: e poco sensibili, anche e soprattutto, alla concreta dimensione delle organizzazioni complesse. Senza potere - e ancor meno volere - entrare nel merito di questa o quella vicenda giudiziaria, appare ancora diffuso un approccio che chiama a rispondere, sul piano penale, il “vertice” per qualsiasi illecito penale che possa occorrere nel corso della articolata vita di una impresa societaria, o di un ente giuridico magari composto da decine di divisioni e centinaia di dipendenti.

Si assume il “vertice” a fulcro direzionale di ogni funzione, a centro di imputazione e diramazione di ogni potere, e a terminale di ogni responsabilità, anche se questa rappresentazione idealizzata non corrisponde affatto alla realtà: perché nelle organizzazioni complesse il lavoro è suddiviso secondo una articolata ripartizione verticale e orizzontale di poteri, funzioni e responsabilità, che spesso segue il perimetro delle competenze specialistiche di cui ciascuno, nella filiera organizzativa, è portatore.

Chi siede al vertice, come il datore di lavoro o il capitano di impresa, l’amministratore delegato di una società, il direttore generale o il presidente di un ente pubblico o privato, di regola delega poteri e funzioni, e opera sulla base del principio di affidamento, congeniale ad un evidente canone di autoresponsabilità: confidando, cioè, che il soggetto delegato e le persone a cui compiti e funzioni sono conferiti svolgano le proprie mansioni secondo canoni di diligenza, prudenza e perizia, in modo adeguato al ruolo rivestito ed alle proprie competenze professionali.

Chiudere gli occhi su questi dati di realtà e sulla concretezza della fenomenologia di impresa significa accettare il dogma della responsabilità oggettiva, in base al quale se si versa in una qualche situazione di irregolarità, si deve comunque rispondere, anche per il caso fortuito: proprio come recitava il canone medievale, qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu.

Come segnala la più autorevole giurisprudenza della Corte di Cassazione - spesso oggetto di ossequio formale, e tuttavia aggirata in the facts -, un approccio rigorosamente orientato a Costituzione, ed improntato a realismo e concretezza, dovrebbe invece abbandonare l’archetipo del “vertice” onnisciente, onnivedente e onnipotente, e declinare i capitolati delle responsabilità - specie in campo penale - sulle concrete funzioni svolte, sul perimetro delle deleghe conferite, al metro delle competenze specialistiche e delle prestazioni e cautele effettivamente esigibili in capo al singolo.

Una simile premura era stata sollecitata, per vero, sin dagli esordi delle indagini da alcune pregevoli circolari, come quella dell’allora Procuratore di Roma, nell’ottobre 2017, quando proprio nei contesti organizzativi complessi indicava di procedere alla iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato solo dopo aver puntualmente riscontrato, ad esempio in capo al rappresentante legale di una impresa, la sussistenza di “specifici elementi indizianti”: una istanza riecheggiata dall’attuale art. 335, comma 1 bis, c.p.p., e volta proprio ad evitare indebiti automatismi e la “gogna” dell’avviso di garanzia inviato solo in ragione della posizione rivestita.

L’esigenza di una rigorosa individualizzazione dell’addebito - un elementare principio di civiltà del diritto penale - è ovviamente tanto più avvertita quando si tratta di concludere l’accertamento delle responsabilità, in sede di condanna: dove la ricerca di una qualche “capro espiatorio organizzativo”, piegato a schemi presuntivi comodi quanto inappaganti, declinato su esorbitanti doveri di diligenza, su oneri di controllo ubiquitari o su un qualche postumo devoir d’alert rintracciato solo con il proverbiale “senno di poi”, dovrebbe cedere il passo ad una puntuale ricostruzione dei termini del rimprovero, di un rimprovero che la Costituzione vuole, appunto, personale e colpevole. Senza spazi per forme più o meno velate di responsabilità in munere ipso.