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di Lirio Abbate

La Repubblica, 25 novembre 2023

Quattordici anni fa, a 35 anni, fu assassinata dal compagno. Morì perché aveva deciso di essere testimone di giustizia, e perché aveva detto no alla logica maschile della ‘ndrangheta. Lea Garofalo aveva 35 anni quando venne uccisa dal suo compagno il 24 novembre 2009 a Milano. Sognava un futuro lontano dalla mafia, e una prospettiva piena d’amore per la figlia, fuori dal sangue e dalla malavita. È stata uccisa non solo perché era una testimone di giustizia ma anche perché era donna e, quindi, colpevole di essersi ribellata agli uomini del clan calabrese a cui apparteneva la famiglia.

Le telecamere di sorveglianza del Comune di Milano la sera del 24 novembre l’avevano mostrata insieme alla figlia per le vie della città. Immagini impressionanti ma apparentemente normali. Due donne che camminano, si attardano davanti a una vetrina, intorno la gente va e viene, si accendono le luci della sera. E poi arriva il carnefice che porta via con una scusa la donna. È una storia di sopraffazione e violenza disumana. Perché voltare le spalle al clan è un’eclatante infrazione del codice, della legge che sancisce il dominio assoluto degli uomini sulle donne. È un atto di ribellione che sgretola l’immagine di compattezza che il clan ha bisogno di ostentare all’esterno, che mette in dubbio i valori, e rivela i limiti e l’impotenza di uomini mafiosi che vogliono tenere in riga le loro donne. E quando non accade, come nel caso di Lea, l’uomo viene deriso da altri simili che la pensano in maniera retrograda e quindi reagiscono in modo violento per provare, secondo loro, a recuperare l’onore. Ma questi uomini che uccidono le donne, non hanno onore.

Una donna che si affranca dalla condizione di sudditanza imposta dal clan può diventare per tutte le altre un modello allettante, fa intravedere un’alternativa di vita, una concreta prospettiva di riscatto. Come per una ragazza che si ribella alle oppressioni e alla violenza del proprio fidanzato. Anche se è pericoloso, e a volte costa davvero tanta fatica. Liberarsi di loro richiede a volte anche di rompere con padri, madri, fratelli, e può anche imporre di separarsi dai propri figli.

È questa la ferita più dolorosa per le donne di ‘ndrangheta che scelgono di collaborare con la giustizia, è l’amore materno che più le rende vulnerabili. I familiari lo sanno, e non si fanno scrupoli nello sfruttare i bambini per fiaccare la forza d’animo di queste giovani madri, e convincerle a tornare sui propri passi. Lea Garofalo è un esempio purtroppo di questo caso. Ma di contro c’è anche Giusy Pesce, che ha deciso di collaborare anche per dare ai suoi bambini un futuro diverso ed è riuscita a resistere, mentre Maria Concetta Cacciola non ce l’ha fatta, e ci ha rimesso la vita.

Il coraggio di tutte quelle donne che sono passate dall’altra parte della barricata ha una portata ancor più dirompente se valutato in un quadro in cui la società accetta la ‘ndrangheta o le altre mafie come un dato di realtà, come un male inestirpabile con cui si deve necessariamente convivere. Ci sono territori nel nostro paese, da Sud a Nord, dove la modernità convive con un radicamento tenace alle tradizioni. Questa stridente coesistenza di orizzonti è un tratto costitutivo della cultura mafiosa, che accosta competenze all’avanguardia nella gestione delle attività criminali a una cultura patriarcale antiquata e retriva in particolare nella ‘ndrangheta. Maschilismo e senso dell’onore delimitano un universo rigido e fortemente codificato, in cui ruoli e comportamenti sono fissati, e in cui ogni scarto è sanzionato con severità.

Una donna - come le cronache ci dimostrano - che infrange le leggi del clan tradendo il marito commette un reato non emendabile, e la sua pena è la morte. Punendola, il clan riconquista l’onore perduto, rafforza la propria solidità e ribadisce la vitalità del suo sistema di principi e valori. Quando una donna non solo riesce a scampare al destino che i familiari le hanno assegnato, ma si affida allo Stato, ovvero al nemico, in cerca di protezione, gli effetti del suo tradimento si amplificano. Perché voltare le spalle al clan è un’eclatante infrazione del codice, della legge che sancisce il dominio assoluto degli uomini sulle donne. È un atto di ribellione che sgretola l’immagine di compattezza che il clan ha bisogno di ostentare all’esterno. Ma l’azione delle donne vince e il loro coraggio è esempio per altre che possono seguire il loro esempio di ribellione.