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di Chiara Daina

Corriere della Sera, 27 giugno 2023

Una ricerca su 97 istituti penitenziari. Mancano lavoro qualificato e laboratori. Lo psicologo? Per 11 minuti a settimana. Allarme suicidi nel 2022 con 85 casi. La denuncia: troppe pillole, pochi progetti.

In carcere spesso e volentieri la soluzione contro il disagio dei detenuti è una pillola. Anche se non c’è una malattia mentale da curare e il farmaco serve a ben poco. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni detentive, riferito al 2022, nei 97 istituti penitenziari (circa la metà del totale) visitati dagli osservatori della Onlus il 20% dei detenuti assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e il 40% sedativi o ipnotici.

Ma quelli con una diagnosi psichiatrica sono meno del 10%. “Si ricerca nella terapia farmacologica il rimedio salvifico per gestire uno stato di malessere e disadattamento che invece avrebbe bisogno di interventi educativi e di strumenti socializzanti, dalla possibilità di avere un lavoro a quella di frequentare attività di laboratorio, di formazione o sportive e di sentire al telefono i propri cari più dei dieci minuti concessi a settimana.

La pena non deve essere solo punitiva, ma deve anche mettere il detenuto nelle condizioni di non delinquere più una volta fuori di lì” commenta Michele Miravalle, tra gli autori del rapporto e coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri per adulti della Onlus.

Il problema, rileva Antigone nel documento, è che negli istituti penitenziari “manca il lavoro, soprattutto quello qualificato”: solo il 35% dei detenuti ha un impiego e di questi la maggioranza (87%) è impegnata in piccole mansioni interne, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, non spendibili all’esterno. Anche la formazione professionale è quasi assente: alla fine dello scorso anno riguardava appena i14% dei detenuti. Gli educatori - si legge nel report - sono 803, oltre cento in meno di quelli previsti, in media 1 ogni 71 carcerati anziché 1 ogni 65. Mentre nel campione di istituti visitati direttamente dai volontari di Antigone emerge che lo psicologo è a disposizione mediamente per n minuti a testa a settimana.

“C’è talmente carenza di risorse che il diritto alla rieducazione si riduce a un premio per i più collaborativi e meritevoli e chi sta male sul serio, che non è in grado di chiedere aiuto, rischia di non essere intercettato. E anche così che cresce il numero di suicidi, che nel 2022 con 85 casi è stato il più alto di sempre” denuncia Miravalle. C’è poi una categoria di persone detenute con comportamenti intolleranti e aggressivi verso gli operatori, i compagni di cella e se stessi, che si tende a delegare alla psichiatria e a trattare con gli psicofarmaci senza alcun risultato.

“Perché i farmaci non hanno una vera efficacia in questi casi. Li passivizzano e basta. Queste persone, infatti, non hanno una malattia psichiatrica ma un disturbo antisociale e più spesso un disagio psicologico, un’insoddisfazione rispetto al rifiuto o mancanza di risposta ai loro bisogni che si manifesta attraverso la trasgressione delle regole, la manipolazione e la violenza contro sé, gli altri e le cose.

Ma se il carcere psichiatrizza queste persone fa loro un danno, esentandole da ogni responsabilità e non occupandosi del loro recupero sociale” sottolinea Giuseppe Nese, psichiatra e coordinatore del gruppo sulla salute mentale in carcere della Regione Campania. In una circolare del luglio 2022 l’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ricordava che comportamenti di questo tipo sono “spesso confusi con patologie della sfera psichica” e indicava una modalità di intervento integrata socio-sanitaria, che porti a una graduale partecipazione alle attività proposte dall’istituto.

Programma Demetra - Una strategia del genere la sta sperimentando la casa circondariale “Rucci” di Bari con il progetto Demetra, avviato a febbraio dall’unità di medicina penitenziaria dell’Asl cittadina. Un’equipe multidisciplinare formata da psicoterapeuti, psicologi, educatori, assistenti sociali e psichiatra, segue una trentina di detenuti “disturbanti” a cui si è evitato di attribuire impropriamente una diagnosi di disturbo psichiatrico. “Definiamo insieme alla persona un piano di riabilitazione individuale che tenga conto dei suoi interessi, bisogni e preoccupazioni. Il trattamento si basa su un percorso di psicoterapia giornaliera o settimanale.

L’obiettivo è costruire una relazione di ascolto e fiducia reciproci con le autorità” spiega la psicoterapeuta Cinzia De Giglio. Paolo (nome di fantasia), cinquantenne, in galera da oltre io anni, è uno degli utenti del progetto. “I farmaci in tutti questi anni sono stati inutili. Paolo ha bisogno di sentirsi sempre impegnato, è molto rigido, ossessivo, prevaricatore e provocatorio nei confronti degli agenti e degli altri reclusi - racconta De Giglio. Da quando lo seguiamo ha ridotto l’ansia e abbassato le difese. Ha iniziato a dare forma ai suoi pensieri attraverso la scrittura. Ha chiesto e ottenuto che la biblioteca fosse aperta per più ore e sta lavorando a un progetto sulla legalità”.