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di Diego Mazzola

L’Unità, 11 settembre 2023

Davvero si pensa che la “rieducazione” possa avvenire attraverso la tortura del carcere? Che l’uomo moderno possa definirsi “libero”, in qualche modo e in qualche occasione, è una vera sciocchezza. L’uomo può al limite “sperare” di diventare libero, ma oltre le proprie speranze non gli è dato di andare. Eppure la libertà è un diritto fondamentale dell’umanità e dell’individuo, sancito il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che in uno dei primissimi articoli afferma: Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Un articolo che vediamo ogni giorno disatteso dai governi di tutto il mondo, dal nostro incluso.

C’è chi addirittura pretende di dirci come dobbiamo amare, come dobbiamo vivere l’obbligo del lavoro (accontentandoci di quello che c’è o che, forse, verrà), dei motivi per i quali si vuole l’inasprimento delle pene, facendo di noi tutti dei perfetti obbedienti o sudditi in ogni caso. Nel frattempo individuiamo l’ennesimo “capro espiatorio” degli “scafisti” e degli “emigranti economici”, manco coloro che fuggono dal loro Paese per i motivi che conosciamo debbano aver conseguito la patente nautica e di poter esibire un ISEE di soddisfazione per i nostri economisti al governo. Il dissenso è vissuto come una disobbedienza intollerabile e non mai come un’affermazione di un diritto individuale.

Si dice che le prigioni nacquero verosimilmente al sorgere della civile convivenza nelle società umane organizzate per garantire la sicurezza dei cittadini. Come si possa ancora tollerare che le prigioni permettano la segregazione e l’emarginazione di persone che il potere considera pericolosi per sé e che ciò si possa fare in conformità a Leggi e codici determinati dal potere stesso, non mi è dato di capire. Come si possa pensare che la “rieducazione” alla libertà e alla democrazia possa giungere attraverso la tortura del carcere non è cosa di secondaria importanza, tanto più che il tutto avviene sotto la coperta di una cultura violenta che non viene mai fatta conoscere per prevenirne le inevitabili manifestazioni. Sembra di vedere un medico che, pur riconoscendo un cancro nel fisico di un paziente, non fa nulla per curarlo.

L’infamia della punizione diviene l’arte letteralmente “diabolica” di dividere e di porre tutti contro tutti. Perfino del precetto evangelico, quello che ci chiede di lanciare la prima pietra se si è certi di non aver peccato, non si riesce a far comprendere l’importanza di farlo proprio dal pensiero laico. Così, nel momento in cui il Sistema Penale sembra parlare soltanto di Legge, politicamente espressa, che sembra sempre dover appartenere a una maggioranza o a una classe dirigente alle quali non passa nemmeno per la testa l’idea di tutelare le minoranze, si vedono sempre più impallidire le misure che permettono il controllo e la conoscenza delle regole necessarie al vivere civile. Al cittadino si dice che la Legge non ammette ignoranza, quando le leggi nel nostro Paese sono più di 160mila e di impossibile comprensione. Provare a leggerne una, per credere.

Mia è la pretesa che quel controllo debba essere esercitato anche dalla società civile. Ma tutto ciò deve diventare proposta politica. Luigi Manconi afferma, infatti, che l’abolizione del carcere comporta “un programma politico e una strategia normativa”. Questo è il mio sogno, che vede comunque riproporsi il dilemma dell’Uomo, del quale Michel Foucault non a caso annuncia la morte, come già avevano fatto Nietzsche e Heidegger. Il guaio è che le analisi di Foucault si scontrano, evidentemente senza successo, contro il muro di gomma delle Teorie Generali della Pena e della odierna conoscenza.

Lo dico perché la legalità non si occupa di ciò che conduce al fatto/problema, ma consuma sé stessa nella ricerca delle prove (peraltro spesso opinabile) per esercitare l’arte della punizione. Di fatto la “punizione” (ovvero la “pena”), che Michael Zimmerman, autore di The Immorality of Punishment, definisce come “immorale propensione umana” a omologare il pensiero di un popolo, costringendolo a leggi non scelte e, quindi, non condivise, diventando lo strumento più ambito nei progetti di chi crede nell’illusione totalitaria. In sostanza: il Sistema Penale, proprio perché si occupa di “punizione del reo” (ovvero di chi compie un fatto/reato), impedisce le conoscenze necessarie ad affrontare quelle incapacità relazionali, nascondendole agli occhi di tutti, pensando di usare la tortura del carcere per la loro presa di coscienza. È solo ingenuità?