sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Alessio Lo Giudice

huffingtonpost.it, 7 gennaio 2022

Come scriveva Leonardo Sciascia nel 1986, la scelta della professione di giudicare dovrebbe “consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”. Nell’assumere il potere che è associato al giudizio “come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza”.

Il rinnovo del CSM, che dovrebbe completarsi nelle prossime settimane, avviene sullo sfondo degli scandali che, negli ultimi anni, hanno minato la credibilità del potere giudiziario. La contromisura nei confronti di tali scandali, al fine di garantire in maniera sana e corretta la funzione di autogoverno della magistratura, non si può affidare semplicemente a riforme istituzionali più o meno condivisibili. La questione è più profonda, è culturale, e impone una riflessione sulla sensibilità di chi si accosta alla drammatica esperienza del giudizio.

Il nostro è un tempo vissuto in balia di opposte rappresentazioni del diritto. Ad un estremo il diritto è rappresentato come fenomeno attratto e orientato dall’ideale dell’oggettività. Rappresentazione, questa, che si nutre sempre più delle aspettative riposte nelle potenzialità dell’intelligenza artificiale, nelle efficienti prestazioni, ad esempio, che la giustizia predittiva dovrebbe garantire. All’altro estremo, c’è il creazionismo giudiziario, che rappresenta il diritto come esperienza riducibile a pura discrezionalità, all’arbitrarietà dei soggetti in campo.

Si tratta, in entrambi i casi, di derive, distorsioni del diritto, figlie della tendenza imperante a semplificare fenomeni complessi, proprio come nel caso di quello giuridico. Tra i due modelli citati v’è però spazio per una concezione del diritto che si distingua nettamente tanto dall’ideale dell’oggettività quanto dalla presunta inevitabilità del soggettivismo esasperato. Ed è possibile esplorare tale spazio spostando la riflessione sul giudizio.

A cosa serve il giudizio giuridico? In definitiva esso è destinato a valutare condotte e a formulare prescrizioni con la pretesa di fare giustizia. Tale pretesa, da una parte, definisce il margine di autonomia interpretativa che chi giudica deve avere per poter cogliere la giustizia nella legalità. Dall’altra parte, la pretesa di fare giustizia rappresenta un argine contro l’arbitrio soggettivo, contro la pura discrezionalità che può annidarsi anche nell’apparenza di un giudizio logicamente coerente. La pretesa di giustizia, infatti, negli ordinamenti che sono affini alla nostra cultura giuridica, è saldamente ancorata ai testi costituzionali.

La Costituzione è l’espressione normativa di una aspirazione dinamica e condivisa alla giustizia nell’ambito di una comunità e di una cultura etico-sociale specifica. Nella Costituzione non si può trovare una concezione universale e indiscutibile di giustizia. Semplicemente non esiste un tale concetto universale. La Costituzione, però, fissa le traiettorie di significato, le aspirazioni valoriali, e quindi gli strumenti ermeneutici, che consentono al giudice di orientare la propria decisione verso la giustizia.

Tutto questo dovrebbe ricordare, innanzitutto a chi farà parte del nuovo CSM, quanto sia impegnativa, dal punto di vista esistenziale prima ancora che sociale e politico, la pratica del giudizio. Potrebbe contribuire a rafforzare in chi giudica la consapevolezza della responsabilità che si assume, la consapevolezza di quanto nel giudizio sia in gioco la propria e l’altrui libertà, di come sia gravoso il fardello di cui il giudice si fa carico.

Come scriveva Leonardo Sciascia nel 1986, la scelta della professione di giudicare dovrebbe “consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”. Nell’assumere il potere che è associato al giudizio “come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza”.