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di Antonio Gelardi

Ristretti Orizzonti, 3 dicembre 2022

Da ieri sono in pensione per limiti di età. Pensione forzata perché sono e rimango, nonostante tutto, appassionato di questo lavoro ed avrei continuato volentieri.

Vorrei portare il mio saluto alla redazione ed attraverso di essa al volontariato, al terzo settore, a chi come Antigone, Nessuno tocchi Caino ed altri, continua ad accendere un faro sulla condizione delle carceri.

Lascio con un senso di amarezza non per vicende personali, ho avuto come tutti le mie vicissitudini, ma posso dire di avere fatto, sembra strana questa espressione, un bel lavoro ed anche le ultime esperienze, la direzione della Casa circondariale di Piazza Armerina e la direzione dell’Udepe di Catania, sono state ricche di soddisfazione e svolte all’insegna di felici collaborazioni. Tuttavia...

Sono entrato nell’amministrazione penitenziaria con altri della mia generazione all’epoca di Nicolò Amato e di quello che veniva chiamato, forse con eccesso di enfasi, “Il carcere della speranza”. Credo che a nessuna persona sana di mente oggi possa venire in mente di usare questa espressione. Eppure i problemi di base del carcere sono sempre quelli, ed accanto ad una quota di persone che scelgono la via delle consorterie criminali (alle quali comunque occorrerebbe lasciare una porta aperta) vi è la molto più ampia fascia di emarginati che di fatto in carcere staziona, vivendo un tempo perso e soffrendo tutte le storture intrinseche dell’istituzione totale e quelle aggiuntive di tutti i malfunzionamenti, e non di rado c’è il rischio che escano, una volta finita la pena, peggiori di quando sono entrate.

Il 2022 è stato l’annus horribilis (o forse uno degli…) per il numero dei suicidi che è andato oltre ogni negativa previsione. Il 2020 è stato l’anno delle morti in carcere e vi sono stati accadimenti non paragonabili neanche a quelli degli anni settanta, del periodo pre-riforma del 1975, di cui ci raccontavano i vecchi (per intenderci ho imparato a suo tempo il mestiere dagli agenti di custodia e dal mio primo direttore).

Penso che anche in generale il carcere sia peggiorato, rispetto ai tempi del mio ingresso in amministrazione, per così tanti motivi che sarebbe difficile riassumere. Ne indico qualcuno: la polverizzazione del servizio sanitario. Non che quello penitenziario fosse indenne da difetti, ma aveva struttura ed unitarietà. Ora, rimesso alle Asl, non c’è un servizio sanitario, ce ne sono cento. E va bene o male, a seconda. Per le notizie che ho per lo più male. E non sembra esservi una strategia per il problema psichiatrico, forse in ambito sanitario il più grave. Sarebbe indispensabile recuperare una regia centrale (vera).

L’avere messo da parte l’immenso patrimonio di elementi degli Stati Generali.

L’eclissi della figura del direttore. I nuovi arrivi del concorso espletato dopo 25 anni serviranno a mala pena a coprire il pensionamento degli ultimi due, tre anni. E ci sarà uno stacco generazionale deleterio. Su questo mi dilungherei, ma ci sono tali evidenze che non è necessario farlo. Basti dire che qualsiasi organizzazione che tenga a se stessa cura in primo luogo la propria classe dirigente, quella che, se la funzione, qui mi riferisco a quella del direttore, viene svolta in modo costituzionalmente orientato, dà equilibrio e direzione di marcia al sistema. Le strutture che, se vecchie sono fatiscenti, se nuove, buttate fuori dal tessuto urbano e spesso prive di infrastrutture essenziali quali le condutture idriche. Fra l’altro quelle nuove, con l’ovvia esclusione di Bollate, non sembrano frutto di una idea di carcere e richiederebbero fra l’altro, per funzionare, tre volte il personale rispetto a quelle vecchie. Non si può poi sentire di carceri nuove o seminuove nelle quali non funzionano i riscaldamenti e sono gelide in inverno e scottano in estate.

L’irrisolta questione della identità e della relazione fra le varie professionalità (per uno come me della vecchia generazione è stato in proposito sconvolgente apprendere della proposta di legge degli educatori in divisa). Potrei continuare a lungo, ma forse annoierei perché molti dei problemi sono interni anche se hanno un immediato e grave risvolto sulla gestione del carcere. Soprattutto è mancata una idea portante, che per me e per quelli della mia generazione non può che essere quella del carcere come casa di vetro nella quale il volontariato, il terzo settore e gli organismi esterni entrino non come ospiti ed a gentile concessione (con un ruolo ancillare secondo una stolta espressione), ma come attori necessari ed a pieno titolo. Tutte le evidenze dimostrano che un carcere aperto crea un clima più disteso ed alleggerisce i pesi per gli operatori.

Ora avrò più tempo, leggerò con ancora più attenzione il nuovo 4 bis e cercherò di capire quale sia, se vi è l’emergenza che motiva l’appesantimento di regime e procedure. Anche qui, per intenderci, ho visto con la mia generazione la nascita del 4 bis, i vari decreti legge dal 1991 in poi, ne conosco e comprendo la logica di base.

Ho vissuto dolorosamente l’epoca degli attentati e comprendo le ragioni del 41 bis a patto che risponda alla sua ragion d’essere ossia impedire i contatti con l’esterno a fini criminali e non risponda ad una logica di carcere duro. E duri il necessario, non meno, non più.

Sono un ottimista patologico, ma avendo avuto la fortuna di vedere nascere da vicino la Gozzini ed avere respirato l’ispirazione (e compreso tuttavia gli aggiustamenti) mi sembra di vivere in un periodo di controriforma.