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di Luigi Ravagnan*

Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2023

L’1 gennaio 2023 è entrata in vigore la cd. “riforma Cartabia” relativa alla normativa penale ed in particolare quella riguardante la disciplina processuale penale.

Riforma certo parziale ed ispirata, senz’altro in buona fede, ad un’apparente semplificazione della procedura penale, la quale tuttavia porta a gravissimi perniciosi risultati concreti, tali da arrivare ad una vera e propria “morte” sostanziale del processo penale, quale unica sede costituzionalmente prevista (art.111 Cost.) nella quale, in presenza alle parti processuali dell’accusa e della difesa ed innanzi ad un giudice terzo ed imparziale, e quindi privo di ogni pregiudizio nei confronti dell’imputato, si formano attraverso il contraddittorio le prove del processo così da giungere ad una giusta decisione riguardo al reato ed all’eventuale pena da irrogare.

Si arriva ad una tale radicale conclusione (“morte” del processo!) analizzando le nuove disposizioni introdotte dalla riforma Cartabia, quando la stessa ha affrontato, modificando espressamente le relative norme, il delicatissimo tema relativo ai criteri che devono “governare” sia l’esercizio dell’azione penale ad opera del PM nei confronti dell’indagato, che così diverrà imputato avanti al giudice terzo (nonché quelli che debbono indurre il medesimo PM a chiedere l’archiviazione del procedimento d’indagine), sia il giudizio del giudice per quanto attiene il rinvio a giudizio, cioè a processo, dell’indagato divenuto imputato.

Basta infatti per chiunque leggere la nuova normativa per capire che, da oggi, il rinvio a giudizio si giustificherà non perché vi sono idonei elementi “per sostenere l’accusa in giudizio” (criterio dettato dalla norma previgente) - elementi tuttavia sempre suscettibili di caducare dinanzi al contraddittorio dibattimentale - , ma solo in quanto il PM, prima, ed il giudice, dopo, avranno ritenuto che, sulla base dell’intero compendio delle indagini svolte, vi siano fondate ragioni per giungere alla sicura condanna dell’indagato/imputato.

Quindi il giudice che ha conosciuto tutti gli atti d’indagine e perciò le future nascenti prove del processo (il GUP ovvero il giudice dell’udienza predibattimentale - fase quest’ultima positivamente introdotta dalla riforma) dovrà valutare sulla base delle stesse se vi sia o meno una sicura prognosi di condanna quale condizione indispensabile per rinviare l’imputato a giudizio dinanzi al giudice del dibattimento, il quale, senza poter vedere nemmeno un atto dell’indagine, saprà però con certezza che quell’imputato è tale dinanzi a lui solo ed in quanto (secondo il meditato giudizio di due diversi magistrati prima di lui, che però conoscevano integralmente il compendio delle future prove del processo) merita una condanna per il reato addebitatogli.

È a questo punto più che evidente ed addirittura normativizzato il pre-giudizio che la c.d. “riforma Cartabia” determina nei confronti dell’imputato che affronta il processo; processo che a quel punto diviene inevitabilmente compromesso in senso negativo per l’imputato, che secondo la nuova normativa è tale solo perché merita condanna e non perché deve accertarsi, nel libero contraddittorio delle parti processuali dinanzi ad un giudice terzo, anzi provarsi, la sua eventuale responsabilità.

Evidente altresì l’inescusabile e colpevole ignoranza del legislatore (o è un atto volontario?) sul punto; legislatore il quale non ha proprio capito il perché il decreto che dispone il giudizio del GUP (o quello del giudice della “nuova” udienza predibattimentale) non possa e non debba essere motivato; ciò allo scopo precipuo di non influenzare in nessun modo il giudice del giudizio sulla colpevolezza o meno dell’imputato, soggetto che (sino a ieri) era tale solo perché non poteva dirsi “evidente” la prova d’innocenza.

Nel codice Rocco, Il giudice collegiale del giudizio (Tribunale o Corte d’Assise) riceveva tutto il fascicolo dell’istruzione ed era comunque libero di dissentire dal giudice istruttore, vagliando diversamente le prove già raccolte da quest’ultimo, in uno con quelle eventuali nuove che raccoglieva nel dibattimento.

La nuova normativa, si ribadisce, dimentica colpevolmente le motivazioni profonde della grande riforma del 1988 del processo penale, frutto di decenni di studi delle migliori menti giuridiche italiane e di una politica lungimirante e democratica che le aveva coinvolte.

Quella riforma innanzitutto eliminava l’istruzione formale condotta dal giudice istruttore che con provvedimento motivato rinviava a giudizio l’imputato, con evidente pre-giudizio nei confronti di quest’ultimo quando veniva giudicato nel processo.

La cd “riforma Cartabia” invece, avendo introdotto in modo inequivoco il nuovo criterio che dovrà adottare il giudice per il rinvio a giudizio dell’imputato (ed il PM per richiederlo), ovvero la certa previsione di condanna nei confronti di quest’ultimo, ha creato un vero e proprio mostro giuridico, che configge innanzitutto con il principio della presunzione di non colpevolezza dell’imputato, valido soprattutto nel corso del processo e quale dettato dalla Costituzione.

Il giudice del processo infatti, a causa di quello sciagurato criterio dettato dalla nuova norma, sarà oggettivamente condizionato nella sua libertà di scelta rispetto all’assoluzione dell’imputato poiché, da oggi, è solo un chiaro giudizio di condanna basato su tutti gli elementi probatori raccolti nel corso delle indagini che giustifica il giudizio innanzi ad un giudice il quale non può e non deve conoscere quegli elementi probatori.

Passiamo ora ad un rapido esame delle ulteriori nefaste conseguenze della riforma Cartabia sui diritti e sulle tutele del cittadino imputato.

In particolare due sono gli aspetti più rilevanti di tale campagna demolitiva dei diritti dell’imputato. Innanzitutto la conclamata avversione all’istituto dell’appello (diritto riconosciuto espressamente dalla Carta dei Diritti dell’uomo) che si esprime nella riforma Cartabia con la soppressione di alcune agevolazioni previste per facilitare l’esercito del diritto di difesa per gli imputati e per i loro difensori, quali la possibilità di impugnare anche in forma scritta (e non esclusivamente telematica) e/o depositando il relativo atto in un luogo diverso da quello nel quale venne pronunciata la sentenza da impugnare, ovvero per posta.

Tale scelta illiberale e contraria al diritto di difesa, che anziché sommare nuove agevolazioni alle precedenti sopprime queste ultime, altresì si esprime con la previsione scellerata dell’oralita’ del processo d’appello solo “a richiesta”!

Si dovette attendere la rivoluzione francese per togliere il processo dalla segretezza delle camere di consiglio (e di tortura!) e dalla forma esclusivamente scritta e così ottenere l’affermazione dell’oralità e della pubblicità del processo, anche in appello, quali imprescindibili (ed irrinunciabili) garanzie per il cittadino imputato e per la sua difesa; garanzie all’evidenza ignote alla riforma Cartabia! Per concludere: si dirà che le critiche più sopra espresse sono di mero tecnicismo e che la cd “riforma Cartabia” mira solo a velocizzare un processo troppo lento; non è così!

Vi sono dei presidi di libertà individuale e delle conquiste di civiltà che vanno innanzitutto ricordati e quindi in ogni modo tutelati, non potendo mai venire sacrificati per pretesi efficientismi: la libertà va sempre salvaguardata anche se all’apparenza può apparire più gravoso e “scomodo” farlo; altrimenti sono facili a realizzarsi derive obbiettivamente autoritarie che colpiscono la libertà di tutti.

*Avvocato