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di Alessandro Crini*

Corriere Fiorentino, 28 giugno 2023

Gli uffici giudiziari sono ancora alle prese con l’impatto non lieve della legge Cartabia - per la quale quella definizione è senz’altro appropriata, visto che si tratta di centinaia di norme promulgate nell’idea di adeguare il sistema agli standard necessari all’attuazione del Pnrr - e già si profila la riforma Nordio: pochi articoli stavolta, destinati tuttavia ad incidere su aspetti molto rilevanti del diritto processuale e sostanziale.

La premessa. Si legge che il ministro, già procuratore aggiunto a Venezia, prima del pensionamento, pare non gradire l’interlocuzione dell’Anm. Il che è doppiamente sbagliato. Da un lato perché finisce per delegittimare l’organo di più diretta rappresentanza della gran parte dei magistrati, come certamente non può essere il Csm, organo di autogoverno a composizione mista; dall’altro perché evoca lo spettro di una magistratura che si muoverebbe in una prospettiva di potere più che di servizio.

Mentre, se l’ispirazione della riforma deriva al ministro anche dalla sua passata esperienza di pubblico ministero, non si vede il perché della diffidenza verso ex colleghi, portatori di esperienze consimili. C’è anzitutto il tema delle intercettazioni; strumento certamente invasivo, ma di cui è ormai chiarissimo che sarebbe imprudente privarsi, in un mondo in cui i contatti sono sempre più guardinghi e spesso avvengono tra persone lontane. Se ne parla (male), peraltro, prevalentemente in relazione ai rischi di una loro ingiustificata propalazione, che è il tema su cui la nuova disciplina intende intervenire.

Rilievo in sé condivisibile; salvo considerare, tuttavia, che la legge vigente, tra archivi riservati posti sotto la diretta responsabilità del procuratore, tracciabilità degli accessi e verifica preventiva sull’utilità e pertinenza delle conversazioni intercettate, appare già in grado di apprestare adeguata tutela rispetto a tali pericoli. Ma veniamo a ciò che esiste e che invece, secondo la riforma Nordio, dovrebbe essere abolito: l’appello del pm contro le assoluzioni in primo grado, sia pure limitatamente a reati di modesta gravità. Capisco il rilievo: se la condanna deve essere pronunciata al di là di ogni ragionevole dubbio, come può non esistere un dubbio, quando esso è addirittura consacrato in una prima sentenza assolutoria? Ineccepibile.

Ma il fatto è che, specie quando il giudice è monocratico, e nel nostro sistema questo accade per moltissimi reati, anche molto gravi, quando l’imputato scelga di essere giudicato col rito abbreviato (casi nei quali, peraltro, l’appello sembra restare ammissibile) come escludere un eventuale travisamento del fatto, magari anche molto evidente, per un’occasionale negligente valutazione del giudice? E se non lo si può escludere, è giusto che questo travisamento non sia in alcun modo redimibile in un grado successivo? Direi di no.

Si è accennato all’abbreviato, e all’eventualità che esso possa definire anche processi per fatti molto gravi, rimettendo a un singolo giudice enormi responsabilità. Quello stesso giudice, invece, quella medesima persona fisica, nel momento in cui esamina una richiesta di misura cautelare, almeno per taluni reati, deve, secondo la nuova normativa, riunirsi in collegio con altri due colleghi; con l’idea, evidentemente, che tre sia meglio di uno, in termini di garanzia.

Il ragionamento, in sé, possiede una sua teorica plausibilità; ma, a prescindere dal rilievo circa il grande potere che, a questo punto un po’ contraddittoriamente, l’ordinamento riconosce al giudice unico al momento del giudizio, esso si scontra anche con problemi processuali insormontabili: se l’emissione di una misura rende incompatibile non un solo giudice, ma addirittura tre, in relazione a decisioni future relative a quello stesso procedimento, è facile prevedere quale potrà essere il groviglio inestricabile di incompatibilità che verrà a determinarsi in tribunali di medio-piccole dimensioni, dove le funzioni di gip/gup, giudici della misura e della fase preliminare, sono ricoperte al massimo da quattro o cinque magistrati, se non meno.

Dopodiché, una misura così concepita andrebbe comunicata all’interessato cinque giorni prima dell’esecuzione nel caso, così deve ritenersi, che egli abbia da fornire spiegazioni immediatamente chiarificatrici. Questo purché non vi siano pericolo di fuga o pericolo di inquinamento della prova: condizioni che, escluse al momento della emissione della misura, potrebbero tuttavia sopraggiungere al momento della consapevolezza, nel soggetto avvisato, dell’esistenza di una misura cautelare a proprio carico. Chi non si tutelerebbe in qualsiasi modo, vien fatto di osservare! Ora si dirà che è quanto già avviene per le misure interdittive.

È vero. Ma un fatto di corruzione, sembra sinceramente un’altra cosa. Lì l’esecuzione della misura, a sorpresa, è anche l’occasione per acquisire qualcosa che può servire alla prova, di cui si conosce l’esistenza, ma che si è preferito non prendere prima per non disvelare l’indagine. Non è un po’ troppo? E non è un po’ troppo poco garantista rispetto alle ragioni di chi è rimasto vittima di quei comportamenti illeciti? Su un punto, credo, bisogna essere espliciti: non esiste un modo elegante, poco invasivo, non tanto per scoprire reati gravi quanto per raggiungere la prova certa, utilizzabile nel contraddittorio di un giudizio.

Da ultimo l’abuso d’ufficio. O meglio la sua abolizione. Abolirlo integralmente, osservava una collega, significa proporre il pessimo messaggio che qualunque tipo di raccomandazione o favoritismo, che non sia tale da mostrare una corruttela, non sarà mai un reato; anche se il favorito e il raccomandato non sono i migliori e quindi non avrebbero alcun diritto di superare questi ultimi. Certamente non è ciò che il Governo vuole. E quindi l’invito non può che essere quello a ripensare l’abuso d’ufficio come il resto. Secondo direttrici che forse la magistratura si sente in grado di indicare proprio in virtù d’una quotidiana esperienza.

*Già procuratore capo di Pisa