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di Giuseppe Pignatone

La Repubblica, 30 aprile 2022

È come se tre atleti dovessero gareggiare correndo sulla pista, ma due di loro (il francese e il tedesco, nel nostro caso) avessero sulle spalle uno zaino di 10 chili, mentre il terzo (l’italiano) dovesse portarne uno di 80 chili.

Nel suo recente libro “Il governo dei giudici” (Laterza) il professor Sabino Cassese indica nell’eccessiva durata dei processi una delle ragioni principali, se non la fondamentale, della critica a tutto campo da lui rivolta alla magistratura, individuata come la prima responsabile della crisi della giustizia nel nostro Paese.

A sostegno delle sue affermazioni, Cassese riporta le statistiche comparate con quelle di Francia e Germania: numeri ricorrenti nel dibattito sulle riforme già approvate dal Parlamento e richiamate anche a sostegno delle modifiche dell’ordinamento giudiziario attualmente all’esame delle Camere. Come ho avuto modo di dire nel corso di un dibattito con l’autore, sul sito di questo giornale, si tratta di statistiche che, relativamente al settore penale, conducono a conclusioni sbagliate perché non tengono conto di alcuni elementi fondamentali.

Il primo, decisivo, elemento è il fatto che mediamente in un anno, un Pubblico ministero italiano prende in carico un numero di procedimenti otto volte superiore a quello assegnato, in media, ai suoi colleghi europei. È come se tre atleti dovessero gareggiare correndo sulla pista di uno stadio, ma due di loro (il francese e il tedesco, nel nostro caso) avessero sulle spalle uno zaino di 10 chili, mentre il terzo (l’italiano) dovesse portare uno zaino di 80 chili.

E le differenze non finiscono qui, perché solo in Italia sono previsti per ogni procedimento tre gradi di giudizio: ciò significa, tornando al nostro esempio, che per completare la gara l’atleta italiano deve fare tre giri di pista con i suoi 80 chili addosso, mentre gli altri due tagliano il traguardo dopo un solo giro, o al massimo due, dato che Francia e Germania prevedono filtri severi che ostacolano il ricorso in Appello e, ancor di più, in Cassazione. Tanto è vero che le Corti di Cassazione di quei Paesi emettono ogni anno meno di un decimo delle sentenze (oltre 55.000) pronunciate dalla nostra Corte Suprema.

In queste condizioni non c’è da meravigliarsi se l’atleta italiano non sempre arriva al traguardo o lo raggiunge con grande fatica e con enorme distacco dai colleghi degli altri Paesi. Al di là della “sceneggiatura” dialettica, questi dati sono noti a tutti coloro che discutono di giustizia da riformare, eppure sono ignorati sia nel dibattito politico, sia in quello culturale.

Naturalmente siamo tutti consapevoli che un ipotetico intervento di modifica trova limiti invalicabili in alcune norme della Costituzione. Come l’articolo 112 (obbligatorietà dell’azione penale) che impone al Pm di sottoporre al vaglio di un giudice la definizione di qualsiasi procedimento, anche in caso di archiviazione; o come l’articolo 111, in forza del quale è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge contro tutte le sentenze e contro ogni provvedimento sulla libertà personale.

Per incidere veramente sulla durata dei processi - riducendo, come giustamente chiede il professor Cassese, lo squilibrio attuale tra “domanda e offerta” di giustizia - si dovrebbe intervenire con urgenza sul versante della “domanda” operando una vasta depenalizzazione. Una revisione severa, non limitata alle sole questioni bagatellari di cui è costretta a occuparsi perfino la Cassazione, ma che abbia per oggetto anche le tantissime denunce presentate in sede penale, per esempio configurando reati di truffa o di appropriazione indebita o di abuso d’ufficio, per questioni sostanzialmente di natura civilistica o amministrativa.

È chiaro che per fare ciò occorrerebbe superare l’opposizione di interessi ben rappresentati in Parlamento e nel Paese e, soprattutto, invertire quella tendenza consolidata, non solo in Italia, per cui a fronte di nuovi problemi e alla richiesta dei cittadini di far valere sempre nuovi diritti, il legislatore si limita a creare nuove figure di reato, così alimentando nell’opinione pubblica - come riconosce lo stesso Cassese - l’illusione dell’efficacia quasi taumaturgica della giustizia penale. Ma così non è, né può essere.

Inoltre, andrebbe presa in esame con la dovuta serietà una profonda revisione del sistema delle impugnazioni, e in particolare dell’appello, anche rinunziando ad alcune delle garanzie oggi esistenti. Una revisione che, contrariamente a quanto spesso si dice, non metterebbe in pericolo alcun basilare principio di civiltà giuridica, a meno che qualcuno voglia dubitare della civiltà di sistemi come quello francese o tedesco. Se invece, con una scelta del tutto legittima, di natura squisitamente politica, non si ritengono accettabili queste opzioni, non è serio addossare alla sola magistratura, che pure ha le sue colpe, la responsabilità dei tempi lunghi dei processi.