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di Paolo Venturi*

Corriere della Sera, 16 giugno 2023

Nel 2021 i volontari attivi nel 72% per cento delle istituzioni non profit italiane erano 4,661 milioni: un calo molto rilevante (-15,7%) che non può essere unicamente attribuito alla pandemia. Se guardiamo infatti questo scatto e lo mettiamo vicino al quello della mobilitazione civile emersa nell’emergenza alluvione, le cose cambiano perché abbiamo potuto osservare la marea di una solidarietà liquida invadere le zone più vulnerabili dell’Emilia Romagna.

L’esondazione dei fiumi ha provocato la “tracimazione” dei modelli convenzionali con cui si interviene nelle emergenze e rilanciato un volontariato informale che disintermedia spesso le istituzioni: una gratuità mossa da una domanda di senso che si realizza dentro un aiuto concreto fatto spesso in compagnia. La proliferazione di piattaforme digitali, allestite in tempi record per connettere la disponibilità del singolo con un bisogno reale e per raccogliere fondi, descrivono nuove forme di intermediazione che nella prima fase dell’emergenza hanno disintermediato il Terzo settore ed i Comuni come a voler reclamare uno spazio di auto-organizzazione capace di connettersi direttamente con il bisogno delle famiglie, per poi lasciarsi, subito dopo, liberi di rientrare dentro alla propria sfera privata. Insomma un movimento di solidarietà, ma anche di profonda e desiderata fraternità che per molti è stata occasione per far un’esperienza arricchente, che ha legato giovani (tantissimi) e meno giovani intorno a bisogni di comunità e che li ha fatti tornare a casa stanchi e felici.

Un’esperienza di senso che oggi non può “ritirarsi” e rientrare negli argini della quotidianità senza interrogare le istituzioni pubbliche e le politiche, il Terzo settore e l’agire sociale. Cosi come chi torna al lavoro la mattina seguente dopo una giornata “donata” ad una famiglia invasa dal fango, dovrebbe chiedersi se quell’esperienza è stata un’eccezione o può essere una prospettiva nuova per sé, così dovrebbero fare le istituzioni che sono chiamate a ricostruire la socialità, il paesaggio, l’abitabilità e l’economia di molti territori.

È la “seconda campana” che suona per gli amministratori del nostro Paese. Dopo l’emergenza sanitaria, molti cittadini hanno fatto l’esperienza degli effetti dell’emergenza climatica: in entrambe le situazioni abbiamo capito sulla nostra pelle cos’è il bene comune attraverso una esperienza di “male comune”, di vulnerabilità. Occorre essere seri e ammettere che la vulnerabilità è un tratto stabile e costitutivo tanto della nostra epoca quanto della nostra natura, per cui le soluzioni devono passare da nuovi modelli di costruzione sociale che mettono insieme soggetti diversi. Il territorio infatti non è una geografia ma una rete viva (ecologia) di soggetti, luoghi, scambi, relazioni, dimensioni simboliche che prosperano dentro un mutuo riconoscimento ed una mutua azione.

Questa fotografia porta a galla un problema strutturale: non si esce da queste transizioni senza una visione trasformativa. Detta in altri termini non è un problema di “governo” ma di “governance”. Non è sufficiente costruire i muri delle Case di Comunità (ad oggi 122 sulle 1430 previste), le Centrali Operative Territoriali (ad oggi 14 su 610), gli Ospedali di Comunità (ad oggi 31 su 434) senza legarli e mutualizzarli con tutte le risorse che stanno fra Stato e mercato.

Il Terzo settore, la cooperazione, il volontariato sono un “pilastro” e non un “settore”. Sono un pezzo strutturale dell’edificio e contribuiscono alla sua solidità: senza il pilastro sociale attivato da una autentica sussidiarietà non solo non si svuotano le case dal fango, ma non è pensabile immaginare uno sviluppo umano ed economico migliore di oggi. Ricostruire le strade distrutte dall’alluvione nelle aree interne è una priorità, ma una volta fatta questa urgente azione di “recovery” (ripristino), occorre chiedersi: come immaginare e ridisegnare in quei luoghi, nuove economie, servizi di cura e culturali? Non è una domanda astratta poiché il rischio è che una volta rifatte le strade, queste vengano usate dagli abitanti per abbandonare quel territorio.

Le politiche non si misurano soltanto nella capacità di allocare risorse, ma nel costruire nuove soluzioni a base comunitaria, nel dare potere alle aspirazioni che emergono dal basso, nel rendere la prossimità un meccanismo di condivisione delle risorse. Co-progettare il futuro con il territorio diventa perciò la piattaforma più rilevante su cui sperimentare e misurare il contributo concreto di tutti gli attori al bene comune.

*Direttore Aiccon