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di Gennaro Salzano

Il Riformista, 5 ottobre 2022

C’è stato un tempo, in Italia, in cui la politica trattava le questioni della giustizia, del reato, della pena tenendo d’occhio innanzitutto l’umanità: quella della vittima, che erano insieme la società ed il singolo, e quella del reo. É l’Italia di Aldo Moro che era leader politico di livello internazionale, ma anche filosofo di profondissimo pensiero. Formato alla scuola positivista del suo maestro Biagio Petrocelli, ne prende le distanze per aderire e, per certi versi, fondare un pensiero penalistico che assume i connotati del personalismo di Maritain.

Per comprendere la “filosofia penalistica” di Moro occorre dare innanzitutto uno sguardo veloce alla sua stessa idea di diritto che era, per lui, strumento etico di unità dell’umanità. Nell’idea di diritto di Moro non vi è nulla di meccanico, di formale: esso è invece lo strumento attraverso il quale lo Stato e, prima ancora, la società, positivizzano i percorsi di normazione che accompagnano l’umanità verso il raggiungimento della sua pienezza che si può dire essere l’unità etica di tutti gli individui-persona nei progressivi stadi di avanzamento dalla comunità familiare, alle formazioni sociali, allo Stato alla comunità internazionale. Il diritto che via via si pone è, quindi, per Moro sempre un diritto giusto, poiché è frutto dello spirito che accompagna questo processo unificante della intera umanità. Non può non essere così, almeno finché esso non si sclerotizza in forme che impediscono l’unità piuttosto che realizzarla. In questa idea di diritto si inserisce la concezione morotea della pena e della coercizione.

La funzione primaria della pena, in Moro, va ricercata nel ristabilimento della condizione di equilibrio etico precedente la commissione del fatto illecito. Non è quindi, per Moro, un semplice, quanto spesso impossibile, recupero della precedente realtà materiale, quanto invece il recupero di una condizione della convivenza in cui trionfa la giustizia. In questa dinamica, avverte Moro, il protagonista è l’umanità: quella dell’offeso e quella del reo. La pena è la reazione che la società pone di fronte alla commissione dell’atto illecito. Affinché essa abbia successo e porti al recupero della condizione di giustizia deve essere personale, legale, proporzionale. Fondata sul diritto essa è personale in quanto non può avvenire senza la piena adesione del reo al cui recupero la pena stessa è funzionale. Il soggetto che ha rotto l’equilibrio sociale col comportamento deviante deve cioè essere messo in condizione di comprendere il suo errore e di aderire liberamente alla punizione che la società ha posto verso il suo comportamento.

Solo così, per Moro, la pena può veramente avere successo e ristabilire l’equilibrio etico che è stato rotto. È un’idea che sottende praticamente tutto il pensiero di Moro, in ogni campo: non c’è vera stabilità e non c’è successo nell’agire umano, se la soluzione ad un problema non trova l’adesione di tutti coloro che sono chiamati a dare soluzione a quel problema stesso. Va da sé, quindi, che in una tale visione, non solo la pena di morte, ma anche la detenzione perpetua sono ritenute delle pene ingiuste. La prima è, di tutta evidenza, la negazione stessa del diritto e della giustizia poiché sopprime uno degli elementi essenziali alla ricostruzione dell’equilibrio, la seconda perché nega la possibilità di riabilitazione del reo e quindi la sua adesione al ristabilimento della giustizia.

“Alla coercizione - sosteneva Moro nelle sue lezioni - non è rimesso il compito della definitiva restaurazione dell’ordine etico giuridico, ma di porre le condizioni che agevolino questo ritrovamento del soggetto (…) che si opera con gli strumenti insostituibili della libertà della persona umana”. L’uso della forza come reazione che individuo e società pongono verso il reo, dunque, è “avviamento ad una libera accettazione. E (…) garanzia del successo è la misura dell’amore che individuo e società pongono nella loro reazione; è la sincerità del desiderio di bene, la effettiva imparzialità, la ponderatezza che animano i soggetti i quali entrano in questa vicenda”.

Certo Moro prendeva in considerazione la possibilità che il reo permanesse nell’errore: “in quel punto il diritto è fallito e resta un ineliminabile residuo di male”. Così come può accadere che sia la forza della coercizione ad essere fonte del male. È questo il caso in cui la resistenza del reo, animato dalla volontà di emendare sé stesso, diventa addirittura trionfo della vita morale. Ecco, in un’Italia dove da anni impera un giustizialismo violento, la riscoperta delle radici dell’idea di giustizia sottesa alla Costituzione stessa, cui Moro diede ampio contributo, sarebbe un esercizio utile al recupero della nostra civiltà politica e giuridica.