di Francesca Scopelliti*
Il Dubbio, 3 settembre 2024
Ha fatto della civiltà delle carceri la sua ragione di vita senza chiedere nulla in cambio. E affidare la responsabilità di un settore così complesso a chi è in grado di “sanarlo” farebbe eccellere il nominato ma soprattutto chi lo ha nominato. Si sa, le nomine del governo sono sempre di parte, sono appunto politiche. E nessun partito può recriminare o accusare il governo di turno per questa consueta abitudine, perché tutte le amministrazioni hanno sempre adottato questo comportamento: la persona giusta al posto giusto, si giustificano, dove l’aggettivo “giusta” che farebbe presupporre una competenza, un merito, indica invece la persona che non crea problemi, che si allinea spontaneamente alle indicazioni partitiche. Un ragionamento che si può addire a tutti i ministeri, economia, sanità, cultura ecc., ma quando si parla di giustizia o ancor più di carcere deve esserci un pensiero unico perché si parla di diritto, di rispetto delle norme costituzionali, che appunto non sono “interpretabili”.
Qualche giorno fa è mancato prematuramente il Garante dei detenuti, Felice Maurizio D’Ettore, avvocato calabrese, già deputato di Fratelli d’Italia, che ha avuto poco tempo per mostrare le sue capacità e dare in piena libertà qualche risposta alle tante questioni che il carcere si porta dietro da anni, oggi più di ieri. E la premier Meloni con il governo, insieme al Presidente della Repubblica, devono procedere ad una nuova nomina.
Ora, di carcere tutti ne parlano ma pochi lo conoscono perché, diciamo la verità, quel settore sfiora la politica ma non l’abbraccia mai. D’altronde a chi vuoi che interessi il drogato chiuso in una cella alla ricerca disperata di una dose, o l’extracomunitario che non parla neanche l’italiano, o quel qualcuno in attesa di giudizio che magari poi risulta anche innocente a conferma che il sistema non funziona?
Non interessa a nessuno. Tranne a chi si è sempre occupato delle minoranze, delle fasce più deboli, degli emarginati. Interessava a Enzo Tortora, a Marco Pannella, interessa ancora oggi a Rita Bernardini, che del leader radicale ha ereditato la cultura e la passione, la compassione. Una donna “tosta”, che ha maturato buoni rapporti con i dirigenti del Dap, con i direttori degli istituti penitenziari (li ha visitati davvero tutti!) e con gli stessi detenenti e detenuti, per restituire la dignità a chi è privato della libertà. Per ridare quella speranza rimasta fuori dalle celle.
C’è un vecchio bellissimo film, “La locanda della sesta felicità”, dove una giovane Ingrid Bergman va in Cina come missionaria, lo fa con il cuore e con la testa, sentimento e ragione, tanto da ritrovarsi, strada facendo, funzionario del Mandarino: salva tanti bambini dall’atrocità della guerra, convince le donne cinesi a non fasciare strettamente i piedi dei figli per mantenerli piccoli, placa una sanguinosa rivolta in carcere con la forza delle sue buone parole e non con la repressione militare chiesta dai funzionari del Mandarino.
Ecco quando penso a questa scena del film mi viene in mente Rita. Retorica, mi si potrà dire. Forse, ma sono certa che la sua competenza unita al riconoscimento che ha meritatamente conquistato nelle carceri le darebbe la capacità di affrontare anche situazioni difficili. E va detto, oggi le carceri stanno vivendo un brutto momento con edifici in rovina, necessari di “cure” strutturali e igieniche, con una grave carenza di personale, con un sovraffollamento che ha raggiunto percentuali inaccettabili per la dignità delle persone e per la civiltà di un Paese.
Un problema che nasce da responsabilità condivise dalla politica e dalla magistratura, ambedue convinte che il carcere sia la soluzione di ogni male, la certezza della sicurezza sociale, la cura adeguata per sconfiggere la delinquenza. Argomenti, questi, che portano l’Italia a denunciare in questo anno oltre 70 suicidi tra detenuti e detenenti. Una denuncia vergognosa per uno Stato di diritto, per una democrazia moderna.
Se fossi Giorgia Meloni, donna che ritengo intelligente e - a volte - capace di scelte giuste e libere, non avrei dubbi sulla nomina di Rita Bernardini. E se mi chiedesse “perché Bernardini” risponderei “perché Rita fa politica con passione, per convinzione e non certo per convenienza, perché ha fatto della civiltà delle carceri la sua ragione di vita senza chiedere nulla in cambio, perché saprebbe affrontare i problemi (che sono tantissimi, non si può immaginare quanti) penitenziari e cercare di dare loro una soluzione. E perché affidare la responsabilità di questo o quel settore a chi è in grado di sanare il ‘bilancio’ di quelle deficienze fa eccellere il nominato, certo, ma soprattutto chi lo ha nominato”.
Bernardini fa paura? Credo faccia più paura il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che rivendica di aver visitato “il carcere di Taranto per incontrare solo la polizia penitenziaria, perché lui non si inchina alla Mecca dei detenuti”. È questo il modello anche culturale che vogliamo trasferire all’estero?
*Fondazione Enzo Tortora