di Maurizio Maggiani
Il Secolo XIX, 19 febbraio 2023
Ho una qualche esperienza di galera. Non per ragioni criminali, almeno al momento, ma perché sono stato giovane maestro carcerario al tempo che nelle carceri c’era ancora una sezione di scuola elementare, visto che il quaranta per cento dei detenuti era analfabeta, e poi come volontario nei decenni successivi, quando pareva che si dovesse farla finita con le galere e aprire una nuova epoca di istituti detentivi a norma costituzionale.
Tanto per capirci, quando presi servizio nell’anno scolastico 75/76, il direttore del carcere e il mio predecessore nella cattedra all’unisono mi fecero presente che il meglio che potessi fare era di dare una mano in segreteria al disbrigo di scartoffie, che tanto i delinquenti non se ne facevano niente della scuola; dovetti lottare per fare il mio lavoro, che comunque non si dimostrò solo utile per i “delinquenti”, ma anche per il maresciallo delle guardie a cui scrivevo le lettere alla mamma sua bella.
Di quell’anno ho molti ricordi belli e brutti, ho imparato i rudimenti dell’arabo da un palestinese, ho insegnato a scrivere a un famoso, allora, ladro gentiluomo, ho visto picchiare a sangue un tossico per convincerlo a smetterla con l’autolesionismo, ho assaggiato il rancio dal calderone come da obbligo intanto che dall’alto delle ringhiere i detenuti gareggiavano a chi lo centrava con uno sputo, ho fatto amicizia vera e duratura con una guardia che quando poteva veniva nella biblioteca a prendersi un libro da leggere nelle ore morte del turno. Ma il ricordo più vivido è l’odore.
L’odore del carcere, un odore complesso e unico, miscela delle esalazioni di centinaia di uomini chiusi nello stesso spazio, di condutture stagnanti, di rancio stantio, di fumo di milioni di sigarette, e indistinti e vari elementi non conoscibili, un odore eterno, che impregna i muri e i pavimenti, un odore che nessuna varecchina può contrastare. Un odore violento, che sembra intollerabile e invece si finisce per farci l’abitudine, e quando accade, allora capisci che sei carcerato, catturato nel gorgo penitenziale, che tu sia un giudicato, una guardia, un maestro, un cappellano.
Dopo le riforme molto è cambiato, ma l’odore è rimasto quello, con sottili variazioni, ma quello, diverso tra la sezione maschile e quella femminile, meno pungente quest’ultimo, ma che si tratti di un vecchio carcere circondariale o di un giudiziario modello, l’odore resta sempre l’odore del carcere, e basterebbe quello come punizione esemplare, uno stigma, un marchio indelebile.
E se oggi nelle patrie galere l’esercizio della violenza non è più la pratica istituzionale, la scia persistente di quell’odore dice che restano comunque luoghi segnati dalla violenza, dove quella fisica, diretta, è un’eccezione, ma la più sottile, che infierisce sulla mente e l’anima, è impastata nei muri e dai muri esala nell’aria. Il carcere non è un luogo di cura, è un luogo di pena, di punizione, e se anche le buone leggi e le buone intenzioni ci impongono il rifiuto del castigo fine a sé stesso e proibiscono la vendetta, le mura del carcere sono troppo spesse perché i buoni principi si facciano largo e l’aria pulita che portano con sé ne soverchi l’odore, l’essenza di violenza.
Così, quando ho visto i disegni della “casetta” la prima cosa che ho pensato è stata, qui l’odore non ci arriverà. La “casetta” è appunto una piccola casa, grande come una stanza, è di legno, è dipinta di vivaci colori, ha delle sedie, un tavolo, un divano, piccole comodità, ha anche un nome proprio M.A.MA, Modulo per l’Affettività e la Maternità, il suo posto è un cortile del carcere di Rebibbia, sezione femminile. Il suo compito è arduo, fare in modo che le madri in carcere possano incontrare i loro figli in un luogo ripulito dall’odore della violenza.
Come forse è noto, lo dovrebbe, le madri che vanno in galera possono tenere con sé i propri figli fino al terzo anno di età, in modo che i bambini possano scontare la pena, per un delitto, che ovviamente non hanno commesso, assieme alle loro madri. Per capire cosa significhi passare la prima infanzia in un carcere, conosco un ragazzino che ancora dopo anni quando a portata del suo orecchio tintinna un mazzo di chiavi ha una crisi epilettica; il rumore di chiavi che aprono e chiudono i mille cancelli sono la colonna sonora di una galera.
Le cose stanno così, ci sono proposte perché vadano in modo diverso, diciamo meno disumano, ma galleggiano nell’indifferenza di svariati parlamenti e governi. Dopo il terzo anno le madri potranno vedere i loro figli durante le visite nel parlatorio; cos’è un parlatorio e come ci si sta lo immaginate, se non altro ci sono mille film e documentari che ve lo hanno fatto vedere, ci sono madri che per la vergogna e il dolore si rifiutano di vedere i loro figli in quelle condizioni.
La “casetta” è il luogo umano dove madri e figli, seppure per quel poco tempo che gli è consentito, possono incontrarsi, parlarsi, accudirsi, volersi bene, cercare di capirsi, accarezzarsi, forse e seppure con grande fatica persino spiegarsi. È una cosa che costa poco, che ingombra poco, che non dà fastidio a nessuna regola e regolamento, è una cosa buona e basta.
È stata progettata da dei ragazzi, i giovanissimi architetti che godono di una borsa che l’architetto Piano mette a disposizione sborsando il suo emolumento di senatore, anche questa è una cosa buona, si è offerta come tutor l’università La Sapienza, un’altra cosa buona. E la cosa più buona di tutte è che c’è, è lì, a Rebibbia, e mi dicono che funziona davvero bene. Certo, non è che una piccola cosa, non cambierà il sistema, non risolverà, non farà di noi un Paese dedito all’umanità, il mondo resta quello che è. La “casetta” è un cucchiaio che intende svuotare il mare, ma il fatto è che non c’è altro modo di svuotare il mare che farlo con un cucchiaio.