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di Francesco Da Riva Grechi

L’Identità, 6 febbraio 2024

I principi costituzionali in materia di giustizia sono l’oggetto di discussione immancabile di questa rubrica. Non a caso intitolata semplicemente Ingiustizia, nel senso di un prefisso che nega, non la norma, ma la sua applicazione o dis-applicazione, che ogni volta genera il corto-circuito privato e spesso anche mediatico che conosce solo chi ha avuto l’esperienza del carcere, spesso subita ingiustamente e prima della condanna definitiva o, addirittura, della definitiva sentenza di proscioglimento.

Sappiamo tutti ormai che sta diventando prassi consolidata che quando arriva la notizia di un crimine sui media, sia a sfondo politico, sia comunque di pubblico interesse, bisogna scommettere immediatamente sulla scoperta del colpevole e sulla sua contestuale condanna. Questa settimana siamo andati tuttavia molto oltre.

La presunzione di innocenza è stata sbandierata non come una norma - che pone un principio assoluto e un fondamentale diritto umano - bensì come una scelta politica, sulla quale confrontarsi a piattate di amatriciana e torte in faccia. Le catene di Ilaria Salis, in una surreale aula di Tribunale ungherese, che se non costituissero una violenza così inaccettabile, alle mani e ai piedi di una ragazza, risulterebbero quasi grottesche, contrapposte ai 32 anni di ingiusta detenzione di Beniamino Zuncheddu, innocente, anche nello sguardo e nel volto, ancora dopo così tanto tempo e non sapere per cosa o per chi indignarsi di più.

E qui, al cortocircuito individuale e mediatico, massimo sistema delle democrazie liberali e televisive, si sostituisce il nuovo massimo sistema della rissa universale, del flusso delle coscienze degli incoscienti dove comunque dovranno prima o poi trionfare dei muscoli o la volontà di potenza di un nuovo sovrano novecentesco. Troppo teatrali le catene di Ilaria per non pensare a lei come ad una vittima di uno stato di polizia, dove la rappresentazione dei fatti rischia di superare la loro consistenza reale, pur tragica. Il wagneriano Orbàn irride le mollezze degli stonati coristi del va’ pensiero? Chi lo sa, sicuramente la giustizia europea, seppure battente l’illiberale bandiera ungherese, non offre alcun conforto alle disperate vittime di quella italiana.

C’è una via di fuga? Forse sì, e dipende da queste ultime, colpevoli ed innocenti insieme, che possono appropriarsi sul palcoscenico della loro vita, come nel caso della teatroterapia, della quale un eccellente esempio è lo spettacolo “Credo ancora nelle favole”, in scena in questi giorni presso la Casa di Reclusione Rebibbia di Roma e con il patrocinio morale dell’Associazione APS Cuor di Borgo.

Una prosa senza finalità politica, né di lucro, che vede gli attori detenuti, che eccezionalmente si esibiscono con figli e familiari per interpretare emozioni realmente vissute e frammenti di vita autentica. Storie di fragilità e di solidarietà, storie di ricerca di un’identità diversa, oltre l’etichetta deviante; percorsi di affermazione della dignità umana, per mettersi in gioco anche di fronte ai propri familiari. Letteralmente, uno spettacolo migliore di quello dei processi che si svolgono davanti alle telecamere, dove la verità e la ricerca della giustizia, vengono travolte da coloro che sulla scena hanno più forza, potere e carisma delle loro vittime e dove neanche la legge ha più alcuna oggettività.