di Angelo Ferracuti
La Stampa, 2 aprile 2023
La Casa dei diritti a Roma dà assistenza agli stranieri privi di ogni documento. Ottenere l’iscrizione anagrafica è necessario ma difficile, colpa della burocrazia. La Casa dei diritti sociali si trova dietro la stazione Termini, in un vecchio palazzo del quartiere Esquilino.
Pochi metri quadri dello sportello di ascolto all’entrata, una piccola stanza confinante e un minuscolo ufficio sul retro. Arrivano persone con le loro storie scritte sui corpi, nelle espressioni dei visi. Storie che a volte non riescono nemmeno a raccontare, iniziate in altri continenti, che si sono perse come loro. È un parlatorio continuo di tutte le lingue del mondo in questo piccolo confine dove da una parte del vetro discorrono migranti e dall’altra sono in ascolto figli di stranieri di seconda e terza generazione, i sei volontari del Servizio civile. Le voci si rincorrono, creano un cortocircuito acustico nel brusio indistinto.
A Roma ci sono storicamente comunità straniere, è da sempre città aperta. Qui arrivano stranieri dalla Puglia, dalla Campania, dalla Calabria, dove lavorano alla raccolta dei pomodori e delle olive, oppure dal Nord. Ma anche italiani, persone anziane che si trovano in estrema povertà o ragazzi sbandati. Tra i tanti è passato anche un monaco russo dissidente perseguitato e torturato dalla polizia putiniana, cosa che gli è stata riconosciuta dal tribunale nella pratica da rifugiato. Molti dei trenta stranieri che ogni giorno si rivolgono allo sportello vengono per l’iscrizione anagrafica, che permette loro di richiedere o rinnovare il permesso di soggiorno e avere l’assistenza sanitaria, per la quale serve anche un documento d’identità.
Senza quel foglio di carta non esisti, resti in un sottomondo randagio e invisibile. “A volte si crea un vuoto - spiega Gennaro De Luca, operatore legale che lavora qui da dieci anni, capelli corti e barba brizzolata, nel piccolo ufficio sul retro - molti si trovano in un limbo e uscirne è molto complicato, soprattutto per chi vive in strada e non ha un contratto di affitto”.
Adesso si sta lavorando a un accordo per la procedura dell’iscrizione anagrafica fittizia per i senza fissa dimora con il Comune di Roma. C’è già una proposta di delibera, ma molti si perdono nei labirinti tortuosi delle procedure.
“Devi inviare una richiesta via mail ai servizi sociali del municipio dove dimori, e già questo è un problema per chi non possiede un computer, o non ne ha mai scritta una”, dice Gennaro. Successivamente ti convocano, ti rilasciano una attestazione di prima analisi che viene inviata al tuo indirizzo di posta elettronica con il formulario di iscrizione che deve essere compilato correttamente, stampato e rispedito all’ufficio anagrafico. “Noi diamo assistenza in queste cose che sembrano banali, ma chi vive per strada non è capace di scrivere in italiano, spesso non capisce quello che legge - racconta, - quando il muro della lingua è invalicabile i nostri mediatori li accompagnano”.
L’appuntamento - Ma non finisce qui. Dopo c’è un altro appuntamento per l’iscrizione anagrafica e il certificato di residenza. Alcuni sono vulnerabili, tossicodipendenti o con problemi psichici, si dimenticano di presentarsi, oppure non sono in grado di raggiungere i luoghi. Allora i tempi si allungano. “Possono passare mesi, mesi - ripete De Luca - cinque, sei, anche di più, e magari manca il codice fiscale, oppure la scansione non si legge bene, intanto queste persone ritornano; poi c’è il paradosso di quelli che non possono richiedere l’iscrizione anagrafica perché non hanno un documento valido, oppure è scaduto”.
In quel caso quando uno si reca in questura per il rinnovo del permesso di soggiorno gli chiedono l’iscrizione anagrafica, poi gli rilasciano un documento che si chiama 10 bis, un preavviso di diniego dove c’è scritto che manca il certificato di residenza, è un documento identificativo ma non d’identità, non sempre viene accolto dall’amministrazione pubblica creando un conflitto con gli sportelli immigrazione della questura.
E ancora ritardi, rinvii. Per non dire delle donne nigeriane con bambini che hanno chiesto asilo politico in Italia e poi si sono trasferite in Germania per lavoro o perché vittime di tratta, e infine sono state rispedite da noi: “Si apre la procedura Dublino, che stabilisce la competenza territoriale tra Stati e dura molti mesi, e con quel documento è praticamente impossibile fare l’iscrizione anagrafica e al servizio sanitario nazionale, richiedere un documento d’identità o lavorare”.
L’Esquilino è un viavai, un hub, una porta d’ingresso e di fuga dalla città, quartiere dalla realtà frantumata, complessa e di conflitti, degrado, emarginazione, violenza. Ma anche luogo ricco di associazionismo e di iniziative virtuose come la Scuola multietnica Di Donato, Piazza Vittorio partecipata, Binario 95 per l’accoglienza diurna. E, appunto, la Casa dei diritti sociali, un’associazione di volontariato laico impegnata dal 1985 nella promozione dei diritti umani, dove anche altri volontari, legali, giuslavoristi, offrono consulenze gratuite, e accanto c’è la scuola di italiano.
Tre giorni - “Da qui vediamo il mondo che ci scorre davanti - dice ancora De Luca - i profughi ucraini, gli afghani dopo il ritiro delle truppe Usa. Quando c’è un conflitto dopo tre giorni le vittime ce le ritroviamo qui”. Fuad è un operatore sociale figlio di padre egiziano e madre marocchina, capelli scuri e carnagione olivastra. Parla arabo, spagnolo, inglese e italiano, sta seguendo un ragazzo nigeriano che ha ottenuto l’asilo politico, è vestito di scuro, un cappellino con la visiera, deve rinnovare il permesso di soggiorno ma è un senzatetto: “gli abbiamo dato un sacco a pelo, lo stiamo aiutando per fare una residenza fittizia”.
Quando ha iniziato era molto colpito dalle storie degli altri, si sentiva coinvolto, “ma nel corso del tempo ti accorgi che per aiutarli non devi farti toccare dalle emozioni ma concentrarti sul loro problema e cercare una soluzione”. Fuad mi fa conoscere Badshah, viene dal Bangladesh e lavora come aiuto cuoco, vuole portare qui sua moglie e ha un posto letto in una casa comune, sta cercando un appartamento, ma nessuno vuole fargli un contratto regolare, “difficile, difficilissimo”, dice.
Hafid invece viene dal Sudan, spiega la mediatrice marocchina che parla con tutti gli arabofoni. È un ragazzone alto, sorridente e dai modi dolci che fa il muratore. Oggi è molto contento, ha avuto il nulla osta per il ricongiungimento famigliare con moglie e tre figli piccoli. “Sono due anni che vivo qui e sto diventando matto, non capisco niente”, dice. Prima è stato in Libia, poi in Francia, “fortuna che al lavoro, nei cantieri, riesco almeno a comprendere quello che devo fare”.
Per il resto vive nel suo isolamento linguistico, in una specie di mondo a parte. Come il ragazzo nigeriano ventenne di cui parla Laura Bisegni, la responsabile della Casa dei diritti sociali. Uscito dal carcere dopo una condanna per spaccio si è ritrovato per strada. Aveva il documento scaduto da due anni e non riusciva a chiedere il rinnovo, al commissariato non gli avevano voluto fare la denuncia di smarrimento.
“Sono carne da macello, la disperazione di non avere niente da perdere li porta a fare tutto pur di sopravvivere, mandare i soldi a casa a quelli che hanno finanziato il viaggio - dice Laura - lo abbiamo ascoltato, ci ha raccontato la sua storia, e mentre parlava concitato è scoppiato in lacrime, lo respingevano tutti da giorni, nessuno parla con me diceva, aiutatemi a tornare a casa”.