di Diana Zogno
L’Unità, 30 novembre 2024
Nella vita a Rebibbia “vedi la tossicodipendenza, l’uso e abuso di psicofarmaci, donne che girano come zombie. Puoi assistere alla morte”. A testimoniarlo è Bruna Arcieri, detenuta, appartenente a quell’esiguo numero di reclusi che, in Italia, con l’applicazione dell’art. 21 della legge sull’ordinamento penitenziario, possono uscire dal carcere per essere assegnati a lavori esterni agli istituti penitenziari. L’occasione per parlare della sua e di altre storie che vivono e percorrono le carceri arriva con il seminario “Le attività d’inclusione durante e dopo la detenzione” organizzato da Unitelma Sapienza lo scorso 28 ottobre per raccontare il lavoro che l’Ateneo e il contact center in particolare, sta portando avanti a Roma in partnership con la cooperativa Etam, coordinata da Don Sandro Spriano.
“Per capire che cosa una persona vive in certi momenti, occorre entrarci in interazione diretta e farlo con umiltà” ricorda il Rettore Bruno Botta. “Offrire delle opportunità significa mettere nelle condizioni qualcuno di fare qualcosa, senza dover mettere in evidenza le sue esperienze passate. Sta a noi, piano piano, comprendere la bellezza di quello che stiamo vivendo, non solo nel donare opportunità, ma anche nel capire. Se noi per primi non ci mettiamo a disposizione e non mettiamo gli altri nella condizione di capire, di provare, di avere opportunità, abbiamo fallito”.
Un fallimento, quello della mancata vocazione all’inclusione e al rispetto dei diritti, che è già realtà sul piano dei fatti e della legge in Italia. “Pannella diceva che la nostra Costituzione è così buona che se la sono mangiata” ricorda Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino. “La Costituzione viene costantemente violata. La finalità, per esempio, costituzionale che prevede il percorso individuale del detenuto verso la risocializzazione non è percepito né presente nelle carceri nazionali. Tornando infatti al codice di ordinamento penitenziario”, prosegue Rita Bernardini, “basti pensare che questo contiene diversi articoli che non sono mai stati attuati e articoli dal 74 in poi che istituiscono i Consigli di aiuto sociale, istituzioni che non sono mai state realizzate e che avrebbero dovuto avere una forte valenza sociale per l’inserimento del detenuto in una rete di supporto, che poi l’avrebbe condotto a trovare o ritrovare il proprio inseriment o lavorativo.
Con l’On. Roberto Giachetti, con cui da decenni siamo al lavoro su questi temi, abbiamo presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per chiedere che fine hanno fatto i Consigli di aiuto sociale. In realtà, su oltre 62mila detenuti che oggi sono presenti nelle carceri - in 45mila posti disponibili - meno di 2.000 hanno l’opportunità di fare esperienze esterne di inserimento anche lavorativo. L’ordinamento penitenziario stabilisce l’esistenza di un percorso individualizzato di trattamento. Vale a dirsi che dovrebbero esserci dei professionisti: educatori, psicologi, criminologi per attuare questo percorso che deve portare al reinserimento sociale.
Molti detenuti, tuttavia, non hanno mai visto un educatore, non conoscono neanche il concetto di percorso individualizzato, sono abbandonati a loro stessi. Così la legge non vive e perisce la carne viva delle persone”.
A ricordare l’inferno, perché di inferno in Terra parlano i numeri del sovraffollamento e delle morti negli istituti penitenziari, è lo stesso Don Sandro Spriano che da anni coordina la Cooperativa Etam e che citando la Bibbia dà voce a un messaggio antico, attuale, profondamente umano. “Quando ho iniziato a frequentare le carceri ho pensato all’inferno così come è descritto, la geenna, la ‘valle di Innom’, dove si compiva il sacrificio dei bambini con il fuoco, una società di catene, della non solidarietà”. La stessa ‘non solidarietà’ che porta morte negli istituti penitenziari sotto lo stigma di un’indifferenza istituzionale e politica senza precedenti.
E se proprio l’indifferenza, l’egoismo, la violenza diventano i pilastri di quegli istituti di democrazia dove la grazia della giustizia dovrebbe essere faro di verità e speranza, come possiamo immaginare che oltre quelle sbarre, la società specchio dei non detenuti, si regga su principi diversi? Abbiamo costruito l’inferno e gli abbiamo dato un nome diverso in ogni epoca che abbiamo abitato nel tempo, rendendolo sempre più terreno, sempre più reale e vicino.
A essere cambiata è la spregiudicatezza del boia, della mente che giudica senza comprendere, della mano che si chiude senza aprirsi, del cuore che sanguina senza più chiedere aiuto.