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di Silvia Perdichizzi

L’Espresso, 6 marzo 2022

Escluse dalle attività ricreative, recluse in un reparto, non possono ricevere visite nelle aree verdi. Come se scontassero una doppia condanna. Al reparto G8 di Rebibbia è un martedì come tanti. Melany si avvicina al cancello. Infila il braccio tra le sbarre e fa segno alla guardia di aprire.

Il cancello si muove lentamente e Melany può oltrepassare quel confine che le è in genere precluso. Quel confine oltre al quale per gli altri detenuti c’è un minimo di libertà. Ma non per lei, né per le sue compagne. La loro colpa? Essere transessuali.

“Noi trans viviamo in uno spazio confinato, non possiamo fare le attività che fanno gli altri, per noi è tutto più difficile”, dice. Una gabbia nella gabbia, una doppia condanna. Melany, all’anagrafe Calixto, è brasiliana e ha 35 anni ma vive in Italia da quando ne aveva 20. Una vita passata sul marciapiede per poi finire dietro le sbarre.

È una transgender e, se questo rappresenta un problema fuori dal carcere, dentro la sua vita è più complicata di quella degli altri detenuti, donne e uomini. Prende gli psicofarmaci perché ha spesso attacchi di panico legati alla convivenza forzata in spazi riservati molto ristretti.

Siamo a “Roma Rebibbia”. dentro la sezione carceraria più grande dedicata in Italia alle transessuali: L’Espresso ha potuto visitarla, incontrare le detenute, osservare una realtà chiusa a doppia mandata. All’interno del reparto maschile G8 vivono più di 250 detenuti che si dividono tra coloro che possono svolgere lavori esterni e i detenuti che si dedicano a lavori di pubblica utilità.

E poi ci sono loro: 17 transessuali relegate dietro un enorme cancello blu addobbato con lucine colorate che sembra ancora Natale. Vivono lì, tra cinque stanze per dormire, una per la scuola, una polivalente e una che dovrebbe essere la stanza della socialità ma che viene usata per stendere i panni. “Oltre questo spazio, spiega Melany, non possiamo andare. Non possiamo nemmeno ricevere visite nell’aria verde a differenza dei detenuti maschi”.

Melany soffre molto la solitudine, la sua famiglia non è in Italia e, solo dopo una battaglia durata tre anni, è riuscita ad ottenere la possibilità di ricevere la visita di un amico. “Per fortuna da qualche tempo posso andare a lavorare al G14, in ambulatorio, altrimenti mi ammazzerei”. Lory, all’anagrafe Loris, romana, ha 38 anni.

È agli arresti domiciliari da circa un anno ma è stata a Rebibbia dal 2010 al 2015. La prossima estate avrà finito di scontare la sua pena. Si nasconde dietro un’apparente spavalderia ma ammette che il suo sogno è andare all’estero dove “de ‘sta storia che sei trans non gliene frega niente a nessuno”. Del carcere ha anche ricordi belli, legati soprattutto alle persone. Per questo ha sofferto molto quella che chiama una “ghettizzazione”.

“Soprattutto all’inizio non sapevano se usare il maschile o il femminile e hanno finito per chiamarci per cognome. Non potevamo usare il trucco e neppure gli accessori. Ricordo una poveretta che è stata chiusa in cella per non farsi vedere pelata fino a quando non ha avuto la sua parrucca”.

Quisquilie per molti, questioni di identità per loro. In Italia la realtà delle trans in carcere è una questione molto delicata, quasi clandestina, di cui lo Stato non si preoccupa, scaricando il peso sugli Istituti penitenziari che già si trovano ad affrontare problemi di sovraffollamento e mancanza di personale. Nel nostro Paese i transessuali sono 400mila e il dato, fornito dall’Istituto Superiore di Sanità, è approssimato per difetto. Un dato, anche quantitativamente, importante e invece le istituzioni, come spesso accade in Italia, arrancano nel riconoscimento di diritti civili elementari e in quello all’autodeterminazione.

Arrivano dopo: non solo rispetto ad associazioni che svolgono un ruolo di “rompighiaccio”, ma anche rispetto ad un’opinione pubblica sempre più lontana da mentalità anacronistiche, sessuofobe, sessiste. Quello di Rebibbia non è un caso isolato. Esistono reparti trans anche a Reggio Emilia, Belluno, Milano San Vittore, Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale e Ivrea.

Nelle altre carceri le persone transessuali vengono inserite nei reparti “precauzionali” insieme ai sex offenders (pedofili, detenuti per violenza sessuale...), ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle forze dell’ordine.

La motivazione? Tutelarle da violenze, discriminazioni, attacchi omofobi. Antigone, associazione che da anni si batte per la tutela dei diritti dei detenuti, parla di “sezioni ghetto” e nel suo XIII Rapporto denuncia “l’esclusione delle transgender dalle attività culturali, sportive e ricreative, oltre la difficoltà a relazionarsi con il mondo esterno. Nella quotidianità le transessuali trascorrono la maggior parte del loro tempo separate e limitate nell’uso degli spazi pubblici per rispettare il principio di non promiscuità su ordine del ministero”.

Altro aspetto delicato è quello della difficoltà “a garantire continuità nelle cure ormonali. Non tutte le Asl, infatti, le riconoscono e la spesa spesso deve essere sostenuta dalla persona interessata”. Isolamento e ghettizzazione generano, poi, un grande disagio psicologico che può sfociare in episodi di autolesionismo, automutilazione, suicidio come ultimo tentativo disperato di denunciare la mancanza di riconoscimento della propria identità sessuale.

Eppure, come sostiene la Garante per i detenuti di Roma e Provincia, Gabriella Stramaccioni, “quella delle sezioni dedicate è l’unica strada possibile: la promiscuità è un rischio troppo alto e quella dei sex offenders mi sembra la soluzione meno adatta, quasi offensiva. Ma questa forma di protezione va ripensata e istituzionalizzata, partendo dalla formazione, affinché i diritti non vengano sacrificati in nome della sicurezza”.

In che modo? Serve un passo indietro. L’ultima riforma dell’Ordinamento penitenziario risale al 1975. Soltanto nel 2016, su spinta delle tante associazioni attive sul territorio e del Movimento identità trans (Mit), è stato istituito un tavolo di lavoro con il ministero della Giustizia e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap). Da qui l’introduzione del concetto di “sezioni dedicate” all’interno dell’ordinamento e l’impegno ad adottare delle Linee guida affinché le sezioni non si tramutassero in una forma di apartheid. Suggerimenti, appunto. Scaduti tra l’altro con la conclusione del progetto. Per il resto nulla.

“In buona sostanza è tutto nelle mani dei direttori dei vari Istituiti. La soluzione potrebbe essere semplice: seguire le Linee guida europee, investire nella formazione continua, l’ultima risale al 2014, e nella sensibilizzazione, appoggiandosi alle associazioni che da anni lavorano su questi temi, e garantire l’accesso ai servizi socio-sanitari nazionali”, dice Porpora Marcasciano, storica attivista Lgbt e presidente onoraria del Mit. Ma in un sistema carcerario stretto tra sovraffollamento, sicurezza, problemi sanitari e suicidi, le trans sono l’ultimo pensiero.

In realtà qualcosa è stato fatto. A Rebibbia, per esempio, il Garante nel 2015 ha proposto un progetto culturale per colmare il vuoto di conoscenza dei diritti della comunità Lgbt tramite un laboratorio di serigrafia e di giornalismo. E ha fatto in modo che le persone trans fossero inserite nei percorsi di istruzione di primo e secondo livello. Un grande passo è stato fatto con l’estensione, voluta dall’ispettrice del G8, Cinzia Silvano, e dalla direttrice, Rosella Santoro, dell’accesso al lavoro anche alle detenute transgender, parificando così i loro diritti a quelli degli altri detenuti. Ed è stata concessa la possibilità, riservata alle donne, di comprare accessori come trucchi e parrucche.

Molto è stato fatto anche a Ivrea, grazie alla collaborazione del carcere con il Centro interdipartimentale disforia di genere Molinette (Cidigem) della Città della Salute e della Scienza di Torino. Un centro specializzato di riferimento che ha permesso la formazione del personale a tutti i livelli. “Serve un lavoro continuo per superare il pregiudizio che il mondo transgender sia legato alla prostituzione e alla sessualità deviante e un costante supporto psicologico alle detenute”, spiega Chiara Crespi, psicologa e psicoterapeuta.

La collaborazione con il Cidigem ha consentito che alle detenute fosse garantita sempre la terapia ormonale e il supporto sanitario necessario, evitando il disperdersi tra le varie Asl. Isole in mezzo ad un mare ostile. Perla (Azevedo sui documenti), brasiliana, è arrivata in Italia a soli 18 anni. Adesso ne ha 28. Un passato di violenze, abusi e tentati suicidi dentro e fuori dal carcere.

Sogna un futuro in cui liberarsi dalle catene mentali per cui il destino di una trans sia uno e uno solo. Ma fin quando le istituzioni non fanno il loro dovere e si affidano al mondo dell’associazionismo e al buon cuore dei direttori penitenziari, quel marchio le viene ricordato ogni giorno. “Ogni volta che sento al microfono la voce che chiama i detenuti uomini per il corso di teatro, spagnolo, per il pallone mi ricordo che sono solo una trans”, sussurra. Anche qui dentro, dietro il cancello blu, sezione trans, reparto G8, Rebibbia nuovo complesso.