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di Roberto Monteforte

strisciarossa.it, 2 febbraio 2023

A volte si cambia nella vita. Dopo oltre trentacinque anni passati a l’Unità, gli ultimi tra Vaticano e impegno sindacale e dal 2015 la pensione ora mi ritrovo a Rebibbia, volontario alla Casa di reclusione di Rebibbia. Un paio di volte a settimana - ma quando serve anche più spesso - varco i cancelli del carcere per raggiungere la terza sezione e raggiungere la redazione di “Non Tutti Sanno”, il notiziario sulla vita del carcere realizzato con i detenuti del “penale” tutti con sentenza definitiva e con pene medio-lunghe da scontare. Ho deciso di mettere al servizio le mie competenze professionali per realizzare un periodico che dia voce alla realtà dei detenuti. In fondo, come credo ogni giornalista dell’Unità, ho vissuto la professione come impegno culturale e politico per cambiare la società e per combattere le ingiustizie. Ora mi trovo dentro una realtà di particolare sofferenza e disagio, di riscatto e di umanità, di sensibilità e coraggio, di resilienza che oltre le sbarre si ignora. E non sono io a descriverla, ma aiuto chi la vive ogni giorno a trovare le parole più efficaci per comunicarla.

La prima volta che ho varcato i cancelli di un carcere è stato per ragioni professionali. Era il 18 dicembre del 2011 e da vaticanista seguivo la visita di papa Benedetto XVI ai detenuti del Nuovo Complesso di Rebibbia. Ricordo ancora l’emozione e forse anche il timore che ho provato all’ingresso del carcere. Dover lasciare il cellullare all’ingresso e poi attraversare i lunghi corridoi, sotto lo sguardo attento degli agenti della polizia penitenziaria, con i cancelli blindati che si aprivano per poi rinchiudersi al nostro passaggio. Ricordo ancora il rumore secco dello scatto metallico di apertura e chiusura. Era un viaggio all’interno di un altro mondo. Controllo dopo controllo ci lasciava alle spalle la vita “di fuori” e ci si doveva misurare, solo per poche ore, con limiti e regole severe. Mi appariva una realtà cupa, intrisa di sofferenza e dolore. Eppure già allora, sentendo le testimonianze dei detenuti al pontefice, incontrando i loro sguardi e la loro commozione ho pensato a quanta umanità e speranza ci fossero tra quelle mura.

Ora è una realtà che da volontario ho iniziato a conoscere e che è bene sia conosciuta andando oltre i drammatici fatti di cronaca. Se non altro perché il carcere ci riguarda, è parte di noi, perché è il segno di quanto sia labile la soglia tra ciò che è lecito e il reato. Basta uno scatto d’ira non controllato, una distrazione alla guida, un gesto violento o una vita sbandata per arrivare a delinquere e trovarsi “dentro”, insieme a chi ha scelto il delitto, ma che può cambiare profondamente vita, provare rimorso per le vittime, diventare persona nuova. E poi è un luogo duro, ma anche di straordinaria sensibilità e umanità. Ho conosciuto ergastolani in semilibertà che hanno dedicato la loro vita a educare i giovani al rispetto delle regole, alla legalità. Per questo abbiamo intitolato il notiziario “Non Tutti Sanno”.

Intanto in carcere è diversa la dinamica del tempo. La giornata è scandita dalle rigide regole del regolamento. Con le fasce orarie da passare nella “camera detentiva” e il tempo destinato alle attività comportamentali o al lavoro. Vi è poi e il tempo “libero” per il passeggio che nella Casa di reclusione è possibile anche utilizzare all’aperto, negli ampi spazi a disposizione dei detenuti. È un tempo che scorre inesorabilmente sempre uguale. Un tempo “vuoto”, che porta alla passività e alla regressione i reclusi se non fosse “riempito” dalla scuola e dalle attività dei volontari con i loro laboratori e progetti. Sono attività fondamentali perché il tempo senza valore, senza futuro, senza dignità, senza adeguati sostegni medici e psichiatrici, porta alla depressione, alla disperazione e troppo spesso, drammaticamente, al suicidio. Di questo tratta il notiziario.

Vi presento la redazione - Per incontrare la redazione, varcati cancelli e attraversati corridoi, raggiungo un ambiente al piano terra di uno dei padiglioni della Casa di reclusione. Siamo al massimo una decina di persone. E si discute. La redazione sono Federico, Danilo, Antonio, Marcello e Marco. Li coordino, li aiuto ad individuare i temi da trattare, ad impostare gli articoli, che poi io “passo” e titolo. Ma il giornale è fatto da loro. Anche la grafica e l’impaginazione è tutta “interna”, con gli scarsi mezzi a disposizione e nei ritagli di tempo che la vita reclusa offre. Si lavora su un pc senza connessione con l’esterno, con un programma di grafica degli anni 90 che non viene letto dai pc fuori. Il notiziario ora lo fotocopiamo per farlo girare all’interno del carcere.

All’esterno è più facile. Basta affidarsi ai social. Ma questo è compito mio e di tutti gli amici che ci sostengono da fuori. Mentre stiamo cercando sostegni e collaborazioni per migliorare la situazione stiamo lavorando al terzo numero di “Non Tutti Sanno”, la scaletta dei temi è pronta. Abbiamo appena chiuso il secondo numero. Decisamente impegnativo: sono ben 24 pagine a colori che raccontano ciò che di positivo si realizza nella vita “reclusa” e che denunciano le tante criticità che rendono disumana la carcerazione. La redazione ne è soddisfatta.

C’è molto da raccontare perché i problemi sono tanti in un carcere. Quelli che ai nostri occhi sembrano piccole cose dietro le sbarre hanno tutto un altro peso. Si capisce ad esempio quanto al recluso pesino le tante “pene aggiuntive” a quella inflitta dal tribunale, a partire dalla lontananza dei propri cari. Poi ci sono le disfunzioni causate dal sovraffollamento e dalla carenza in organico del personale: dagli agenti di polizia penitenziaria al personale tecnico, agli operatori sino ai medici e agli psicologi. Una carenza che vuol dire meno attività e mano assistenza. E questo pesa nella vita “reclusa”. A volte basta un cavillo, un ritardo nel disbrigo di una pratica, una semplice svista burocratica, apparentemente insignificante, per determinare ritardi sulla richiesta di benefici cui il recluso avrebbe diritto. Può saltare un permesso già programmato da passare in famiglia o se manca la “scorta” degli agenti della polizia penitenziaria può saltare a chissà quando la visita medica urgente o la tesi da discutere all’università.

Una suora generosa - Così ora sto imparando cosa sia la vita reclusa. Sono capitato per caso al “penale” di Rebibbia. Mi ha coinvolto una suora combattiva e generosa, Suor Emma Zordan che da quasi dieci anni coordina un gruppo di scrittura creativa e che ogni anno raccoglie in una pubblicazione le testimonianze dei reclusi sul tema che hanno deciso. La religiosa prima mi ha chiesto di collaborare alla pubblicazione dell’ultimo libro. Così, da “esterno”, attraverso le testimonianze ho iniziato a conoscere questa realtà dal punto di vista del detenuto.

Poi, una volta entrato a Rebibbia ho incontrato gli autori delle testimonianze. Da circa tre anni sono la mia redazione. Non ho mai chiesto a nessuno quale reato avesse commesso. L’incontro era ed è con le persone. Poi, con la confidenza, è arrivato il racconto delle storie e ho iniziato a conoscere meglio le persone. Anche se alcuni mi erano già noti per i fatti di cronaca di cui sono stati protagonisti. Ora vi è un legame di stima e vicinanza che sento profondo.

Si lavora ad un progetto che mette in gioco anche le vite, il desiderio di riscatto, la solidarietà verso la comunità, l’esigenza di una giustizia che non sia vendetta ma che consenta di sperare un futuro da costruire. Questa speranza è la risposta più efficace alla domanda sociale di sicurezza. Il detenuto che sconta la pena e che durante la detenzione ha avuto modo di formarsi ad un lavoro e che fuori riesce a trovare, è molto difficile che torni a delinquere. Bisogna superare però il clima di sospetto o indifferenza. Per questo è necessario far conoscere. Per questo può essere utile “Non Tutti Sanno”.