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di Valentina Calderone*

Il Manifesto, 8 settembre 2023

Si è tornati a proporre in questi giorni, grazie a una mozione presentata dal Partito democratico di Roma Capitale e votata ieri all’unanimità dall’Assemblea Capitolina, la chiusura del carcere di Regina Coeli. Il tema del sovraffollamento e delle carenze strutturali della maggior parte dei penitenziari ci accompagna da decenni. Alcune carceri, è ovvio, sono più adeguate di altre. Meglio costruite, con impianti funzionanti, progettate con spazi per realizzare attività. Ma, a fronte delle poche eccezioni in cui queste caratteristiche sono rispettate, in Italia tratteniamo detenuti e detenute in luoghi che marciscono, con l’umidità che mangia i muri, tubature fatiscenti e spazi vivibili ben al di sotto dei tre metri quadrati a testa, limite minimo stabilito dalla Corte europea dei diritti umani. Tra queste ci sono le carceri storiche, edifici nati per altri scopi e trasformati col tempo in istituti di detenzione. Come Regina Coeli, il carcere romano nel quartiere di Trastevere che da convento è diventato, a fine ‘800, casa circondariale. Durante la Seconda guerra mondiale alcune sezioni dell’istituto furono requisite dai nazisti e lì venivano trasferite le persone in attesa di esecuzione, tra cui Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, che riuscirono a evadere. Per questo motivo, su quelle aree sussiste un vincolo storico e architettonico da cui discende l’impossibilità di apportare modifiche strutturali. Tornando a oggi, su 628 posti disponibili, in quel carcere sono stipate oltre mille persone, un tasso di sovraffollamento del 160% in una struttura in cui non ci sono sale per le attività educative, in cui non esistono spazi verdi e dove le ore d’aria si trascorrono in cubicoli di cemento.

La mozione votata in Assemblea capitolina e che impegna il Sindaco e la Giunta a promuovere presso il Governo e il Ministro della Giustizia la richiesta di chiusura di Regina Coeli, trova fondamento nell’insalubrità di un luogo che nemmeno i fondi straordinari ciclicamente stanziati per le ristrutturazioni riescono a rendere vivibile, come rilevato anche dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura in una recente visita all’istituto. D’altra parte, chiedere la chiusura di un carcere significa ipotizzare quali possano essere le alternative.

A prescindere dalle proposte, non evocate da questa mozione, di costruire palazzi o di trasformare Regina Coeli in un albergo, è l’idea di privare la città di un luogo attraverso il quale si possa avere ancora un contatto diretto con il carcere a non convincere del tutto. La presenza di quelle mura davanti ai nostri occhi continua a rappresentare un modo per non dimenticare l’umanità che lì è rinchiusa e, proprio perché tramite l’edilizia penitenziaria degli ultimi decenni è stata operata la scelta di nascondere sempre più lontano dal nostro sguardo gli istituti, avere dei presidi fisici a ricordarci che il carcere è un pezzo di città diventa un fatto culturale cui bisogna dare peso. Chiudere Regina Coeli non deve diventare pretesto per promuovere la costruzione di un nuovo istituto - o per trasformare qualche caserma allo scopo - sicuramente più grande, sicuramente più lontano, che verrebbe stipato di persone in poco tempo.

L’unico strumento davvero efficace per affrontare i problemi strutturali e di sovraffollamento è la deflazione della popolazione detenuta. Su 58mila persone presenti nelle quasi duecento carceri italiane, 15mila hanno un fine pena sotto i due anni. Facciamo uscire subito questi uomini e queste donne, rendiamo Regina Coeli un piccolo istituto a trattamento avanzato, e continuiamo a permettere a quel luogo di ricordarci che di carcere non dobbiamo mai smettere di occuparci.

*Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale