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di Michele Farina

Corriere della Sera, 19 marzo 2024

Nei 100 giorni del genocidio più rapido della storia 800mila persone furono uccise. Oggi i ragazzi vivono in un mondo diverso “dove vittime e carnefici si parlano”. “La cosa più importante è cosa ti metti in testa. Se ti ostini a pensare in malafede, tu diventi ciò che pensi. Se ritorno a ciò che è successo 30 anni fa, io da ruandese avrei preferito che le persone mi avessero messo in testa l’unione e l’amore. In questo modo, insieme, saremmo andati lontano”. “Oggi in Ruanda la cosa che più mi tocca” dice Leonille Niyigena “è che carnefici e sopravvissuti si parlano”.

Leonille è nata ventisei anni fa, ed è un volto dei “nuovi ruandesi”. È nata quando Julien ha cominciato a fare il reporter. In Ruanda il genocidio del 1994 è lo spartiacque di ogni cronologia: nel parlare comune, per collocare un evento nel tempo, si dice semplicemente “prima” e “dopo”. Come prima di Cristo e dopo Cristo. Leonille è nata “dopo”, come il ventiquattrenne Patrice Muttilwa: “Mio padre mi ha raccontato quanto è successo. Mi ha detto che hanno ucciso sua madre, mia nonna, davanti ai suoi occhi. È qualcosa di molto doloroso ancora oggi, anche per me. Qualcosa di molto difficile da capire. Come si può fare una cosa simile? E i killer erano i loro vicini di casa”.

A ogni ricorrenza, e a ogni latitudine, il più rapido genocidio del mondo contemporaneo fa pensare a qualcosa di oltremodo doloroso e impensabile. Come ha scritto Rory Stewart citando Saul Friedlander, “un genocidio è troppo pesante per essere dimenticato, e troppo ripugnante per essere integrato in una normale narrativa della memoria”. Come e cosa ricordano i nuovi ruandesi arrivati “dopo”? L’età media nel Paese delle Mille Colline è 19 anni. La maggior parte dei 14 milioni di abitanti non era ancora venuta alla luce quando, in cento giorni, dall’aprile al luglio 1994, almeno 800 mila individui (compresa la nonna di Patrice) furono massacrati in 29 modi diversi, con il fuoco e con le pallottole ma soprattutto a colpi di machete e di mazza chiodata (masu). I carnefici furono probabilmente 250 mila, di cui meno del 3% donne, anche se le autorità di Kigali ritengono che 3 milioni di persone abbiano avuto delle responsabilità nei massacri.

Un genocidio pianificato - Il governo degli estremisti di etnia hutu ordinò e pianificò il genocidio della minoranza tutsi (15% della popolazione) mentre il Sudafrica celebrava la fine dell’apartheid e l’elezione di Nelson Mandela a primo presidente nero. A Kigali, capitale di un Paese grande all’incirca come la Lombardia incastonato nel cuore dell’Africa, i governativi mobilitarono l’esercito, le forze paramilitari Interahamwe (“coloro che attaccano insieme”) e i civili che normalmente venivano chiamati a raccolta per le corvée collettive denominate umuganda. Questa volta “il lavoro da fare”, così era chiamato, non era il disboscamento di un’area incolta ma quello di un’intera comunità, che viveva fianco a fianco con la maggioranza hutu, in una società che i matrimoni misti avevano reso sempre più aperta e intrecciata. Il lavoro era il genocidio dei tutsi, e della minoranza dei “lavativi” hutu che si opponevano all’opera di “pulizia etnica”: alla radio gli speaker invitavano ogni cittadino a “finir le travail” uccidendo i restanti “scarafaggi” in circolazione.

Addio alle etichette illegali - “Oggi in Ruanda quando ci presentiamo a qualcuno non usiamo più le vecchie etichette di tutsi e hutu” dice Carmel Joe Muligande, 23 anni. “È illegale, e se lo fai finisci in prigione. Siamo semplicemente ruandesi”. Uno dei paradossi della memoria, in particolare della memoria di un evento “irricordabile” come un genocidio, è che porta con sé (a volte per legge) una certa dose di oblio. Ricordare il genocidio degli hutu sui tutsi, e al tempo stesso cancellare il fatto che ci siano (ancora) gli uni e gli altri. Come si riesce a vivere nel “dopo” senza dimenticare “il prima”? Ester Iranzi, 21 anni, un paio di occhiali dalla grande montatura e un giubbetto jeans, ha detto a Julien Daniel: “Ciò che metti nella testa è ciò che ti fa essere quello che sei. Pensando a quanto è successo trent’anni fa, avrei preferito che la gente mettesse nella mia testa pensieri come unione, amore e benessere. Solo così si può andare avanti insieme”. È un modo un po’ arzigogolato per esprimere la voglia di futuro e “la stanchezza da ricorrenza”? Il disagio per gli anniversari? Per la memoria in sé? È anche un segno che per i giovani ruandesi quel passato “tossico” è ormai superato?

Vittime e carnefici si parlano - “Mettere i pensieri nella testa delle persone”, come dice Ester Iranzi, è ciò che fa la cultura, o la narrativa di regime. “I giovani ruandesi” fotografati e intervistati da Julien Daniel fanno parte di questa narrativa? I giudizi sul presidente Paul Kagame, che da trent’anni governa il Paese, sono tutti positivi. Se “vittime e carnefici si parlano” dice Leonille Niyigena “è grazie alla leadership del nostro presidente”. E Sandrine Uwizeye, 23 anni, vorrebbe che “il presidente restasse al potere per sempre, fino alla sua morte”. Cosa che, al momento, sembra molto probabile. Quest’anno si terranno nuove elezioni e Kagame non ha concorrenti. L’ultima volta che i ruandesi sono andati alle urne, l’ex generale ribelle del Fronte Patriottico che sconfisse il governo dell’Hutu Power e mise fine al genocidio ha ottenuto il 99 e passa per cento dei voti. Nel 1994 Kagame, cresciuto tra i rifugiati tutsi scappati nel vicino Uganda dopo i massacri del 1959, aveva 36 anni e a Massimo Nava del Corriere della Sera dalla foresta raccontava: “Questo non è uno scontro tribale, come pensano molti in Europa, ma una guerra di liberazione. La gente è dalla nostra parte, perché ha capito che senza diritti non ha senso vivere”.

Diritti ancora calpestati - Oggi in Ruanda i diritti degli individui vengono spesso calpestati. I rapporti di associazioni come Amnesty International e Human Rights Watch denunciano l’evidente e capillare repressione governativa nei confronti di oppositori e voci fuori dal coro. La risposta sprezzante di Kagame tocca i nervi scoperti dell’Occidente (“da quale pulpito ci date lezioni”), ricorda le colpe della comunità internazionale in quei cento giorni di massacri, la vergognosa omissione di soccorso (che riguarda l’Onu, gli Stati Uniti, l’Europa) se non l’appoggio al regime genocida (un’accusa che tocca la Francia). E gli altri attori? Trent’anni fa Cina e Russia erano fuori dai grandi giochi del potere globale. Quello era il mondo in cui si vaticinava la fine della storia, con Mosca alle prese con la caduta dell’Urss e Pechino ancora in disparte. Sono passati trent’anni, il mondo è cambiato ma l’atteggiamento internazionale nei confronti del Ruanda di Kagame è rimasto quello di chi si sente giustamente in colpa per le assenze e i silenzi del passato: distratti allora, quando i tutsi venivano massacrati sotto gli occhi dei Caschi Blu, e distratti oggi davanti alle pieghe autocratiche di chi ha dimenticato che “non ha senso vivere senza diritti”.

Povertà cronica nelle campagne - Il Ruanda di Leonille, Patrice, Ester corrisponde all’immagine che vuole dare il governo e che vogliamo avere anche noi: quella di un Paese che dalle violenze dei machete e dei masu è passato alla modernità dell’information technology. È un’immagine molto metropolitana, Kigali-centrica, dimentica del fatto che la grande maggioranza dei ruandesi vive nelle campagne, in un contesto di povertà cronica e di campicelli a gestione familiare. Il Ruanda come la Singapore o la Svizzera dell’Africa: hub aereo, tecnologico, finanziario, lindo e ordinato. All’avanguardia sui temi di genere, con una maggioranza femminile in Parlamento. Un Paese pronto ad accogliere i migranti deportati dalla Gran Bretagna, con un discusso e (per Kigali) lucroso accordo che probabilmente non decollerà mai.

Il fronte congolese - L’immagine di un Paese pacificato, che ha dimenticato per legge la divisione tutsi/hutu, salvo continuare a esserne ossessionato ai piani alti del potere. L’intervento militare e l’appoggio ruandese alle milizie tutsi nella vicina Repubblica Democratica del Congo non è mai venuto meno dal 1994, quando due milioni di hutu (tra cui i responsabili del genocidio) fuggirono oltre confine. Negli ultimi mesi, l’avanzata dell’M23 (esercito rivoluzionario congolese ndr) sostenuto da Kigali ha acuito la crisi umanitaria nella regione congolese del Nord Kivu, arrivando a circondare Goma. La tensione con il governo di Kinshasa è ai massimi, missili ruandesi avrebbero colpito forze internazionali dispiegate sul terreno. Ong come Medici Senza Frontiere denunciano una situazione sempre più drammatica nei campi con milioni di sfollati. Kigali accusa Kinshasa di appoggiare milizie hutu come le “Forze democratiche di liberazione del Ruanda”, le stesse che inizialmente furono accusate per l’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, in un’area storicamente fuori controllo governativo, con un centinaio di gruppi armati in azione e un tesoro di minerali da sfruttare selvaggiamente.

Pressioni Usa - Gli Stati Uniti premono su Kagame perché fermi l’M23. Il presidente-generale fa spallucce. La preoccupazione del Ruanda per i miliziani hutu è giustificata? Giovanni Carbone, ricercatore dell’Ispi esperto di questioni africane, mi dice che i discendenti dei fuoriusciti hutu “probabilmente costituiscono ancora in una certa misura una minaccia esterna” per il Ruanda post-genocidio. “La vicenda personale dello stesso Kagame, figlio di tutsi rifugiati in Uganda, è espressione di questa realtà ciclica, la prova che generazioni successive di rifugiati possono costituire una minaccia per chiunque governi a Kigali”. Il Ruanda del “dopo”, smartphone e vestiti alla moda, deve ancora aver paura del “prima”, machete e masu. E questa forse è la cosa più spaventosa.